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 Gioia Costa

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Programma Esplor/Azioni 2000   PDF  Stampa  E-mail 

Esplor/Azioni tra Arte e Teatro

5 – 27 Ottobre 2000
Programma


Esplor/Azioni è un progetto che nasce con l'intenzione di riunire teatro, arte e città, all'insegna di una visione.
Una visione che si sviluppa sotto forma di un itinerario alla scoperta di quattro luoghi legati all'identità della città di Roma, sospesa fra passato e presente, archeologia e contemporaneità. Ogni luogo viene vissuto dagli spettatori in maniera dinamica, lungo percorsi attraverso la storia, animato dalla presenza inquietante dell'arte di oggi e trasformato in un suggestivo palcoscenico dove ogni barriera fra attori e pubblico non esiste più.
Seguite le istruzioni. Varcate la soglia. Lasciatevi prendere dal "genius loci". Vivete un'esperienza che non si ripeterà. Entrate in relazione con ciò che vi circonda. L'esplorazione sta per cominciare.

Ludovico Pratesi

Kinkaleri
Zoo n.3
Museo Civico di Zoologia

Masque Teatro
V=Ex1, omaggio a Nikola Tesla dimenticato inventore della AC
Centrale Montemartini

Accademia degli Artefatti
Sopralluogo n.1 “Allontani lo sguardo!”
Palazzo Falconieri

Oxytoc Dance di Patrick King e Johan Silverhult
Mistero
Casa di un collezionista d’Arte


Inizia così questo primo viaggio attraverso i luoghi. Se per ogni spettacolo si immagina una creazione di spazio, affinché questo corrisponda al progetto artistico che deve contenere, in esplor/azioni è invece il luogo a originare l’opera, a determinare l’azione: i quattro gruppi invitati hanno pensato l’evento a partire dalla cornice. Ed è importante sottolineare che non siano luoghi di spettacolo. Né scena né teatro, sono ribalta dell’azione, la ospitano adattandosi, a loro volta, ad essa.

La domanda posta da Ludovico Pratesi cerca di dare forma ad una esigenza forte che guida le sue scelte e le sue proposte: come fare uscire l’arte da una forma ne ha invecchiato le modalità espressive? Come restituire all’espressione una libertà che le permetta di andare oltre i contenitori abituali? Non è solo far spettacolo là dove spettacolo non è previsto, è osservare in che modo questo possa generare nuovi impulsi e rispondere a esigenze impreviste. Cosa nascerà da queste ibridazioni?

Gli ospiti della rassegna, ciascuno seguendo le linee della loro ricerca, raccolgono il guanto. È una piccola scommessa, un passo verso l’alleggerimento delle forme, verso la possibilità di accoglierne di nuove e farle crescere. Dopo il teatro-immagine, che ha chiuso la sua stagione nella metà degli anni ’70, molti sono stati gli esperimenti in questa direzione, ma il fatto che la ricerca si sia nuovamente spostata dalla parola ai corpi e dai corpi agli spazi conferma la necessità di un’ulteriore zona di investigazione. Per molti gruppi non è più sufficiente scavare all’interno delle parole, dei caratteri e delle situazioni, ma è importante cercare espansioni nello spazio, plasmando corpi e suoni a nuove forme, a nuove possibili immagini. I linguaggi proliferano nella contaminazione, e nascono codici, segni, forme espressive.

esplor/azioni: già dal nome del progetto traspare la dimensione della ricerca: azioni che esplorano spazi, corpi, idee. L’Accademia degli Artefatti, Kinkaleri, Masque Teatro e Oxytoc Dance, questi gli ospiti invitati.

Gioia Costa




Palazzo Falconieri
5,6,7 ottobre 2000
Accademia degli Artefatti

ALLONTANI LO SGUARDO

Con: Miriam Abutori, Fabrizio Arcuri, Rita Bucchi, Paolo Bultrini, Paola Cannizzaro, Elio Castellana, Nicola Danesi de Luca, Sita Falchi, Simone Di Pietro, Pieraldo Girotto, Valerio Musilli, Tiziana Novelli, Iacopo…, Annalisa Zagaro.

Le serate a Palazzo Falconieri sono delle “visioni panoramiche” ma, nella struttura pensata per Allontani lo sguardo, riaffiora una tematica già affrontata dall’Accademia degli Artefatti nei precedenti spettacoli: il problema dell’identità, e della sua percezione. L’impianto visivo forte e strutturato che creano ogni volta serve loro per sottoporsi a prove fisiche che tendono a esplorare un limite. Questo perché prima scommessa dell’attore è quella di misurarsi con qualcosa, e quindi di esplorare. Può essere un carattere, una situazione ma anche uno stato. Loro si misurano con stati: sono chiusi in teche, o immobili su letti, o ripetono movimenti innaturali. Sperimentano in questo modo la capacità di tenuta, fino all’estremo.
Uno dei primi limiti coincideva con le tecniche di rappresentazione esistenti: come mettere in scena, come mostrare un personaggio? Non vogliono adottare un metodo. Cercano un diverso modo di rappresentare, e la strada da loro intrapresa è quella di mettere il corpo dell’attore in rapporto con elementi e strutture affinché si misuri con nuovi limiti. L’azione dura fino allo sfinimento, fino all’esaurimento delle forze.
Da questa esperienza è nata una riflessione sull’immagine che, ai loro occhi, coincide con il movimento e chiama in causa la riconoscibilità. L’immagine non è un oggetto, qualcosa di fissato, di definito. Pensiamo a un ritratto: il soggetto rappresentato si riconosce solo in parte. Per sua stessa natura, il ritratto rivela alcune cose e altre ne cela. È parziale. Dalla percezione dell’immagine si arriva al problema dell’identità: ed è questo forse il nucleo tematico della loro ricerca. Già esplorato nei precedenti spettacoli, e ogni volta in maniera diversa.

Se in un primo tempo l’esplorazione dei personaggi era ‘fisica’, nel senso che partiva dall’“interno” per esplorare le correlazioni fra corpo e spazio, fra carattere della figura e contesto, negli anni è diventata ‘esterna’: personaggio è il luogo, l’involucro, ciò che non si dà come fissato una volta per tutte. Quindi per rappresentarlo lo si può ‘costruire’, come si costruisce uno spazio. Stanze nelle quali gli spettatori entrano diventando così parte del personaggio. Il progetto sull’Età oscura, nato per esplorare il tema del Minotauro, e quindi di Teseo, Arianna e del Labirinto, sviluppa l’intuizione del possibile nuovo rapporto fra personaggio e luogo, e ha dato vita a tre spettacoli sulla narrazione del mito. Teseo (Sono stato), Arianna (non ancora presentato al pubblico) e il Labirinto (Kindergarten).
In che modo lo spettatore accoglie, oggi, una narrazione mitica, fino a che punto è possibile l’identificazione, il riconoscimento con l’eroe? Ogni cosa presentata, nella forma del racconto come in quella del ritratto, implica un punto di vista: per dar risalto ad alcuni elementi ne sottrae altri. Quindi l’immagine persegue ciò che mai potrà raggiungere: l’identità con l’oggetto, la coincidenza. La percezione dell’identità è sempre differita e il soggetto vedendosi riprodotto (in voce, immagine, gesto) si percepisce altro da sé. Si riconosce solo in parte. Tendere all’identità è quindi utopico, in tutte le possibili manifestazioni. Ogni forma di percezione e di accoglienza è basata su un patto di fiducia verso il reale che, secondo l’Accademia degli Artefatti, andrebbe riesaminato.
L’identificazione è negata proprio perché la coincidenza è impossibile. Non si può allora pensare uno spettacolo in termini coreografici, di visioni composte. Tutt’al più si possono mostrare quadri compiuti. Da qui è nata la ricerca di una nuova forma per raccontare il mito e i suoi eroi.
In Allontani lo sguardo riappare il problema della percezione e dell’identità: la visione non è che ombra, contorno, possibile sagoma identificabile attraverso dei segni forti, caratteristici. Poi, oltre la visione, ogni tanto uno squarcio spalanca un nuovo punto di vista. Per lacerazione. La scommessa dell’Accademia degli Artefatti è quella di far percepire altrimenti palazzo Falconieri, per creare una nuova fisionomia del luogo e, attraverso il luogo, una nuova fisionomia del loro gruppo.

g.c.



Museo Civico di Zoologia
11, 12, 13 ottobre
KINKALERI

ZOO n. 3

Quincaille, chincaglieria, da clinquer, far rumore battendo insieme lamelle ed oggetti metallici. La radice si trova nel tedesco klingen, nell’olandese klinken, nel clang e nel clac propri a quasi tutte le lingue europee. Kinkaleri. È onomatopeica, questa parola. Rumore di chiavi, di ferri, di rame, di oggetti luccicanti e poveri. Un rumore che dalla Francia arriva in Albania, dalla quincaille a kinkaleri, per arrivare fino a noi, alle nostre chincaglierie. Questa parola ci porta indietro, negli empori, nei bazar, nei trovarobati. Il gruppo Kinkaleri, nato nel 1995, ha presentato al pubblico sette spettacoli e una decina di studi e sperimentazioni, in Italia e all’estero.
La loro ricerca vuole ridefinire la possibilità di azione dei corpi a partire dai luoghi, ponendosi con essi in una relazione di contrasto.
Zoo n. 3 è una delle tappe del progetto Zoo, che è iniziato a Torino e continuerà nel corso di questa stagione. Il Museo Civico di Zoologia è per loro l’occasione di esplorare un contrasto: il contrasto fra la natura morta del luogo che li ospita e la creazione motoria che hanno inventato per questo spazio.

Sono le sale antiche del museo, quelle scelte da Kinkaleri per la ‘ridinamizzazione’ di Zoo n. 3. Le sale con le teche e gli animali imbalsamati. L’azione si svolge nel lungo corridoio di trenta metri che sarà visibile al pubblico dalle sale. Perché Zoo n. 3 non è solo uno spettacolo, è la tappa di un progetto. “Vorremmo fosse una linea infinita, senza percorso, sulla quale agisca una dinamica fisica e sonora”, raccontano i danzatori Kinkaleri.
La relazione con il museo è da loro pensata come una ‘ricollocazione’: non desiderano violare uno spazio così fortemente evocativo, così connotato dalle presenze che lo abitano, ma vogliono creare una dimensione teatrale all’interno del museo, senza lasciarsi intimidire dalla forte simbologia del luogo. Come riuscirci? “Cerchiamo uno stato danzante: non è la coreografia ad essere danza ma, al contrario, è la danza a rivelarsi poi coreografia”, dicono ancora.
Il movimento per loro non deve quindi essere una composizione coreografica ma la ricerca di stati dinamici, spaziali o fisici; non deve essere gelato in gesti legati fra loro solo da un progetto estetico, da un bel disegno, ma custodire quella possibilità di cambiamento, di imprevisto che i movimenti hanno nella vita. Ogni coreografia è percepita da Kinkaleri come una forma rigida della danza; un luogo nel quale il corpo memorizza e ripete. Un luogo che lo rende automa: il corpo ripete, a volte frasi, a volte movimenti, a volte posizioni. Per uscire dalla ripetizione il lavoro sull’improvvisazione può essere fecondo. “Non cerchiamo l’improvvisazione libera, di origine americana”, continuano i danzatori Kinkaleri. “Crediamo invece che possa svilupparsi come un gioco: poste delle regole, ciascun performer è libero di agire secondo schemi molto ampi, purché rispetti i confini stabiliti. Partendo da una struttura che metta in relazione lo spazio e i corpi nello spazio si crea lo spettacolo. Esso è nato così: due danzatori e un dj improvvisavano, in una struttura forte, rispettando le regole stabilite per quel gioco.
Zoo n. 3 è invece una composizione spaziale all’interno di un luogo bellissimo. Vorremmo arrivare a uno stato del corpo che possa dettare le regole del movimento, dell’azione. Non è importante mostrare immagini, che sarebbero un’ennesima incarnazione della danza coreografata, ma creare forme dinamiche. Queste sono iscritte nei corpi, si tratta di riuscire a leggerle, e a tradurle in azioni sceniche”. Leggere i corpi e attribuire loro un linguaggio mobile, usando il tempo, lo spazio e la materia come segni di una grammatica vivente.

g.c.



Centrale Montemartini
18, 19, 20 ottobre 2000
Masque Teatro
V = R x I, OMAGGIO A NIKOLA TESLA, DIMENTICATO INVENTORE DELLA AC

Istallazione del Gruppo di Lavoro Masque Teatro
con: Eleonora Sedioli, Micaela Mazzoli, Sonia Brunelli, Luca Berardi, Lorenzo Bazzocchi, Catia Gatelli.
Bobina di Tesla: Lorenzo Bazzocchi.

Non si tratta di manipolare luoghi, di esplorare spazi. Per Masque Teatro la scommessa è quella di costruire dei mondi, isolandoli dal contesto.
L’attenzione che fin dagli esordi nel 1992 questo gruppo ha dedicato alla scienza, alla tecnologia e alle macchinerie teatrali, arrivando all’uso di strutture sceniche, incarnazioni della macchina desiderante di Deleuze (Nur Mut, la passeggiata dello schizo) o della macchina celibe di Duchamp (Coefficiente di fragilità), fa si che la Centrale Montemartini si presti particolarmente bene a questo incontro fra arte e industria.
Come in uno specchio rovesciato, l’incontro fra statue e macchinari, arte e tecnologia è sembrato fecondo agli attori di Masque Teatro, che hanno accolto la proposta di presentare in questa sede uno studio del nuovo spettacolo, V = R x I, omaggio a Nikola Tesla. La Centrale, un tempo animata da macchine, valvole, lavoro, è ora morta. Adesso ospita un museo. I busti e le statue sono archeologia artistica che entra in contatto con l’archeologia industriale: da questo accostamento Masque Teatro ha sentito sprigionarsi qualcosa di funebre che ha dato loro il desiderio di far vivere il luogo portando nuovamente nella Centrale l’azione. “Nulla può essere morto in una creazione”, racconta Catia Gatelli, fondatrice del gruppo Masque insieme a Lorenzo Bazzocchi. “La scena chiede vitalità e non si può replicare nulla. L’attore, il personaggio, le luci, la struttura, tutto deve essere agito: diventano elementi di pari valore che, insieme, animano il meccanismo scenico. È importante riuscire a creare un piano percettivo e compositivo nel quale attore, suono, luci siano equivalenti. Per questo tutto deve essere a misura d’uomo. La rappresentazione di un personaggio è per noi occasione di creazione. Non interpretiamo Medea o Amleto: dopo lo studio, quando arrivano in scena, sono esseri nuovi, che hanno una loro esistenza autonoma. E la presenza di macchine, di corpi meccanici, non ha funzione di oggetto: sono architetture sceniche utili, usate dall’attore, che le aziona dalla scena”.
V = R x I è uno studio in più fasi dedicato a Nikola Tesla, l’ingegnere che ha scoperto la corrente alternata. Tesla si occupava di scienza come un poeta si occupa di parole. Era poco attento agli esiti produttivi delle sue ricerche ed era talmente in anticipo rispetto ai suoi contemporanei da poter essere scelto come esempio della solitudine e del talento messi a tacere dalla diffidenza. Nello spettacolo la sua figura viene dapprima evocata da Raymond Roussel, in un ipotetico stile da Comment j’ai écrit certains de mes livres. Appaiono poi alcune macchine: il generatore di Van de Graaf, che serviva a studiare la corrente elettrostatica, la piastra vibrante, che Tesla usò per studiare la risonanza e la corrente alternata, la bobina, macchina generatrice di fulmini, la sedia elettrica, sperimentata per la prima volta nel 1882 negli Stati Uniti e per la quale Edison, per gettare un’ombra su Tesla, suggerì di usare proprio la corrente alternata. Infine una gabbia: quella nella quale riuscirono a chiudere Tesla quando nelle sue ricerche sulla trasmissione senza fili e sulla risonanza si avvicinò alla scoperta della radio. Questo fu troppo, per i contemporanei, che riuscirono a non fargli più avere fondi e sovvenzioni bloccando così i suoi esperimenti.
La presenza di corpi meccanici e di temi scientifici è ricorrente nella storia del gruppo Masque: “Non vogliamo fare teatro scientifico né parlare di scienza attraverso il teatro, ma crediamo che il teatro sia la nostra vita, lo specchio del mondo”, continua Catia Gatelli. “L’uomo non è solo letteratura, e il fatto che a teatro si confronti unicamente con testi letterari è troppo poco: la scienza, la tecnica fanno parte della vita tutti i giorni, anche se accendendo una lampada non pensiamo a cosa generi la luce. È importante che il teatro accolga le diverse manifestazioni dell’esistenza. Siamo abituati a non porci più domande, ma l’origine di un fulmine incantava gli uomini fin dalla preistoria”. E nella Centrale, fra memorie marmoree e valvole e forni, senza letteratura, scopriremo con loro questo inventivo poeta, che i tempi hanno finalmente capito.

g.c.



26 e 27 ottobre
Oxytoc Dance

MISTERO

Coreografia di Patrick King
con Patrick King e Johan Silverhult
Prima assoluta

Patrick King è innanzitutto uno splendido danzatore. Arrivato in Italia all’inizio degli anni ‘80 con la compagnia di danza diretta da Louis Falco, si è poi fermato a Roma per dieci anni. Attorno a lui sono nati spettacoli, letture, incontri fra danza e teatro. Dopo un lungo periodo in Norvegia, dove aveva la direzione artistica dello “Skanes dansteater” dal 1995, è tornato in Italia. Da allora ha collaborato con Carolyn Carson, per la riapertura dell’isola San Giorgio a Venezia, in occasione della biennale di danza 1999 e, nell’estate appena terminata, è stato ospite del Festival di Villa Massimo con Vertigo, un balletto in omaggio a Louis Falco, e del Word Pride al Circo Massimo con Flyng the rainbow. Continuano le sue tournée europee, ma il legame con l’Italia è forte.

Per esplor/azioni Patrick King rimane fedele alla sua idea che, nella danza, il movimento deve essere un flusso. “Il movimento è la prima manifestazione della vita. Nella danza cerco di cogliere le domande, le incertezze, gli scarti fra le urgenze della vita e le maschere che tutti adottiamo, restituendo al corpo una libertà sorgiva. Inventare una coreografia è per me fare un’indagine, e cercare – anche nei movimenti astratti – il legame primo con la vita”. King sa rendere al corpo la morbidezza e il potenziale espressivo che la danza possiede, sempre sostenuto da una tecnica rigorosa, e racconta così le sue suggestioni visive create dal movimento impeccabile che nasconde la tecnica per lasciare affiorare l’armonia, nella forma dello staccato, del contrappunto o del legato.
Johan Silverhult, suo partner in Mistero, esprime con un movimento più nervoso lo stesso dolore, la stessa gioia del corpo ammaestrato, docile e ribelle al tempo stesso. Di Silverhult colpisce la percezione del centro: ogni movimento sembra partire da un punto in perfetto equilibrio che non teme scosse. E questa padronanza del peso e della possibilità di spostarlo nello spazio si differenzia dalla ricerca di King, il quale trasforma davvero il proprio corpo in flusso e crea una maschera scenica neutra, che possa aderire a corpi scultorei di rara bellezza. Così Johan Silverhult e Patrick King in scena sono l’immagine del potenziale infinito della maestria.
In Mistero la sfida è quella di esplorare un territorio ‘composto’, una casa privata, e di far reagire i corpi con gli elementi. “Uscire dal teatro è fondamentale per esplorare nuove possibilità”, continua King. “ È avvicinarsi alla vita, uscire dalla rappresentazione. La danza si è allontanata dalla vita, forse più del teatro. Assistendo a uno spettacolo ho l’impressione che nessuno cerchi più di capire. Far sì che lo spettatore si trovi in un luogo arioso, contraddistinto da elementi forti, è già teatrale: la scala o il giardino d’inverno sono elementi teatrabili, ma sono anche opera d’arte, ed è questo doppio aspetto che mi interessa”.

La precisione del gesto e il controllo ineccepibile del corpo fa sì che non si avverta la ricerca di un movimento fluido e continuo, che scorra come un’unica immagine dall’inizio alla fine del balletto. “Perché il movimento è – per sua natura – inarrestabile”, sottolinea Patrick King. “È causa di nuovo movimento, fonte di vita. È, insomma, la resistenza alla morte, al gelo. In Italia la danza tende a diventare un’espressione puramente estetica, cancellando la natura organica del movimento. Ma senza contenuti, senza interrogazioni, senza ricerca ogni forma muore. La decorazione è rigida, può anche essere gradevole, ma non buca la superficie. La danza non è un’arte decorativa: se si tenta di renderla tale si difende cancellandosi, ritraendosi nell’ombra finché non potrà esprimersi pienamente. È ciò che accade in questi anni”.
Patrick King è fedele all’idea che ci ha lasciato Louis Falco, il quale credeva in una danza che fosse tecnicamente ineccepibile e formalmente chiara. Ma, come si sa, ciò che è chiaro non per questo è semplice, come la sua tecnica dimostra.

g.c.

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