Ci
sono autori che creano mondi, dando forma alle immagini forgiate dalla lingua,
senza propriamente raccontare storie. Altri, invece, li descrivono.
Nel
teatro di Enzo Moscato le figure del passato, ma anche gli oggetti d'uso, i
volti immaginati e le parole lette, sono evocati da una scrittura che, negli
anni, ha delineato un modo di abitare il palcoscenico, facendo confluire dalla
pagina alla scena un'idea del teatro strettamente intessuta a una concezione
della vita.
Fin
dai primi spettacoli, all'inizio degli anni '80, Moscato sembrava immerso in
una solitudine potente. Su una sedia in proscenio sussurrava fra sé, mescolando
il napoletano all'italiano, al francese, al latino; e il suo soliloquio
diventava ricordo a mezza voce, rumore di fondo, colonna sonora di un'esistenza
senza parole d'altri. Così, il racconto popolava la penombra della scena, e la
parola arredava lo spazio vuoto.
Quando
è nata la sua compagnia il palcoscenico ha accolto altre presenze, altre forme.
Da allora la cifra stilistica di Moscato si è modulata. In Rasoi – prima
spettacolo e poi film, che lui scrisse e che fu il lavoro di un gruppo di
registi napoletani allora insieme nel progetto "Teatri Uniti" (con
lui Toni Servillo
e Mario Martone)
–, Moscato era legato ad una piccola sedia che avanzava e scompariva lentamente
nel buio, come la sua parola che si sottrae per darsi nuovamente. Per non far
cogliere tutto, per distrarre l'attenzione dello spettatore con il canto, con
un'inattesa citazione, con un giro di racconto, Moscato parla ad ogni
spettatore senza voler essere capito. Lavora sempre con gli stessi attori, non
indulge in alcun tipo di relazione sociale, scrive con una vecchia lettera 22 e
poi corregge a mano, sbianca e incolla i testi.
Spezzando
l'abitudine a sentirsi partecipi di ciò che la scena crea, Moscato offre un
motivo, un gesto, un accenno rassicurato per poi involarsi verso i filosofi che
gli sono cari, verso un racconto distorto fino alla metafora, verso un'ellissi
personale o verso un uso del napoletano per molti oscuro anche in Italia. Torna
poi, ammantato dell'aura protettiva della scena, a riprendere il suo pubblico
lì dove lo aveva lasciato, ignaro dell'abbandono.
Se il
musicale è sempre stato presente sulla sua scena, foss'esso una cantilena, un
modo di muoversi o la convocazione di figure cantanti, negli anni ha iniziato a
cantare davvero. Scalzo in scena, con lunghe braccia esili che lo accompagnano
nel gesto, attraversa lo spazio con un ritmo interno che lo fa sembrare intoccabile,
e le mani disegnano lo spazio della sua solitudine.
Sorprende
come abbia saputo creare una leggerezza nella quale far scorrere parole dense.
Attento a cogliere ciò che si sa solo intuitivamente, ovvero la necessità del
vuoto nell'arte, Moscato usa scenografie fragili, unisce con leggerezza il
canto e le lingue diverse tessendo una tela che lega segretamente i molti
strati del suo racconto. Così, attraverso un'apparente confluenza di segni,
tesse lo spazio di una libertà che è divenuta uno stile.
La lingua
di Enzo Moscato è l'incarnazione di qualcosa che è legata al sud, in Italia, e
che assume nelle diverse arti le sembianze del barocco. È fatta di volute,
ricci, gessi e trompe l'oeil, e sulla pagina si stratificano le lingue e
le loro ombre, che appaiono simultaneamente a diversi livelli. La sua matrice
filosofica segna la scrittura quanto il carattere della presenza in scena,
trasformando il modo recitare in desiderio di incarnazione del verbo.
Per
presentare in Francia il lavoro di Enzo Moscato abbiamo scelto, con Jean-Marie
Thomasseau, di dare a lui la parola affinché dalla sua bocca
potessero dipanarsi i fili e i nodi che tanto hanno legato la melodia della sua
pagina. E così una mattina in un caffè di Napoli, poi l'indomani in un'ariosa
casa davanti al Teatro Nuovo, ha parlato del suo lavoro, dell'
"insazietà" che persegue e del valore della distanza.
Enzo
Moscato: Sono convinto che in ogni scrittore ci sia un'opera segreta che non ha
bisogno di affiorare, né nella grammatica né nella sintassi. Quest'opera senza
nome è legata, in me, a Napoli. Penso a questa città come alla polis,
per le sterminate confluenze geografiche e culturali che ha avuto nei secoli,
oggi apparentemente scomparse. La forza di Napoli è la morte, o meglio nella
sua potenza di autodistruggersi. Anche l'ostinato non voler entrare nella
modernità di cui parlava Pasolini, che lui considerava un dato positivo, per me
è un errore: chi resta fuori è semplicemente fuori, e Napoli è fuori dal
villaggio che è l'Europa tutta.
– Gioia
Costa: Fuori perché prima del tragico?
– Sì,
è una città massacrata, insanguinata e mi interessa mostrarne il lavorìo
continuo che non si vede: il napoletano si atteggia a essere vitalistico e
iperenergetico – basta pensare al rumore della città – ma questo non è segno di
vita, è tutt'altro. Allo stesso modo, la moina non è segno di vitalità,
è tutt'altro. Pulcinella è un becchino, non la maschera che sembra.
– Lei
crea universi immaginari solo suggeriti. Ricordo che in Arena
Olimpia parlava di Tiresia, il cieco veggente. Che rapporto ha la cecità con
la visione?
–
Come le ciliege le cose sembrano chiamarsi. Sto preparando una rielaborazione
delle Baccanti di Euripide, con un Tiresia che parla napoletano. È un
cieco non cieco, come i veggenti. Bisogna avere gli occhi chiusi per guardare
meglio, per vedere dentro di sé. Quindi, la cecità di questo mio Tiresia è un
ipervedere. D'altronde, non c'è profetismo senza occhi chiusi.
–
Intende dire che saper chiudere gli occhi oggi è una forza, essendo prede
dell'ipervisione che cancella lo sguardo?
– Il
teatro deve rilavorare sulla forza che il silenzio e la pausa
contengono. Non è un mezzo di comunicazione: non è televisione e non è cinema.
Possiamo criticizzare l'assioma di Aristotele sull'unità di tempo, di luogo e
di azione, nella scrittura come nella pratica attoriale, ma il
teatro è sempre in relazione con questo. Scrivendo si può anche
saltare il limite, perché i luoghi sono immaginari, sono non-luoghi, ma devono
poi finire in scena: tener presente il limite e mantenerlo, come diceva Genet.
Rompere i cardini, ma anche rispettarli.
–
Conoscere le regole per poterle infrangerle, è questo che auspica?
– È
un gioco di regole e di non regole, è tutto lì. Un testo convenzionale, di
Feydeau o di Petito, ha regole perentorie, dalle tre unità ai caratteri, ma si
deve cercare di infrangerle. Il segreto è nel creare un gioco più immaginativo
che realistico. Lo stesso vale per i classici: un classico non è una cosa
morta, al contrario: sta lì per dirci quanto sia vivo.
Credo
si debba sempre accennare, più che sostenere, alludere, più che dire, ma questa
è la storia del mio teatro. Per questo, desidero che nulla sia monolitico: ecco
l'origine delle scene mangiabili e stracciabili di Tata Barbalato. Forse è un
estremo, ma esiste uno stile, un modo, con il quale, pur rispettando le regole,
percorrere una strada diversa. Le rivisitazioni dei classici così di moda mi
fanno chiedere se metterli in scena alla lettera faccia davvero bene agli
autori, e cosa voglia dire tradirli.
–
Forse bisogna ripensare all'idea di tradimento, così influenzata dal pensiero
cattolico…
– Il
tradimento c'è di fatto ogni volta che una parola passa dall'inchiostro alla
bocca. È difficile accettare che con il termine tradimento si possa alludere
alla tradizione, che è altro dalla convenzione, infatti è sempre in movimento.
Il
passaggio da padre a figlio è un tradimento di fatto, anche se il genoma è lo
stesso. La scrittura deve essere moderna e personale, ed è il maggior problema
del teatro italiano oggi. Dobbiamo chiudere con la convenzione, con la lettera
morta. C'è qualche rara eccezione, come Leo De Berardinis e Carmelo Bene.
Purtroppo morti tutti e due, uno qui e uno là.
–
L'orfananza è però feconda?
–
Sempre. Antonio Neiwiller – che, insieme a Carmelo
Bene, è stato un grande poeta della penna, della scena e della
vita – diceva qualcosa che non dimentico, che il problema del nuovo è il
problema dell’antico, nel senso che ciò che veramente è nuovo è l’antico non
ancora svelato. Questo mi fa pensare alle anime: dietro le facce nuove ci sono
le antiche. Ho spesso l’impressione di avere di fronte un’antichità che mi
riguarda, molteplici vite che si nascondono. È il problema del teatro:
guardando una cosa non si è mai sull’asse dell’hic et nunc, del qui ed ora.
Perché il problema della novità è il problema dell’antichità, quindi della
tradizione. Ma serve il tempo; anche il problema della traduzione, del
tradimento, richiede distanza. Ripenso spesso a quando Genet fa dire a una
delle due serve quanto sia importante mantenere le distanze.
– La
messa a fuoco, la distanza, salva dall'essere accecati di prossimità?
–
Solo la distanza salva.
– Quale
domanda pone al teatro?
– Non
parto dal costruttivismo o dal naturalismo. Genero un trompe l’oeil, ma
dentro il mio teatro c’è sempre un tranello: una caduta, dei vuoti.
Quando
scelsi la facoltà di filosofia sapevo che era una risposta alla necessità di
perdermi, come essere. Ho voluto qualcosa che mi desse degli argini, e lo
studio della logica dà un regime. La stessa cosa esiste nella scrittura, che in
me è sempre in bilico fra un reale e un irreale. Se dovessi creare una metafora
naturale per l'esistenza userei quella della ragnatela, che è poi un’epigrafe.
Emily Dickinson scriveva di un ragno che tesseva la tela e la sua tessitura al
tempo stesso non era nulla. È il lavoro del tempo, sul non essere o
sull’illusione di esserci.
– La
tessitura è una immagine molto precisa.
– C’è
sempre distanza da connettere: i fili si avvicinano e si allontanano, è questo;
la trama si cuce e si scuce, ed è quanto dice la Dickinson nella sua poesia.
Pensando
alla molteplicità di forme, di tele, di scritture, vorrei che un giorno,
affacciandosi su questo universo, si capisse il mio piccolo lavoro, nel quale
le cose sono connesse fra loro, unite da una coerenza di fondo. Anche la
scrittura è tessere, è artigianato. E per restare tale deve avere il dono di
ospitare l’arte.
–
Tutto questo è legato alla necessità della distanza di cui parlava prima?
–
Bisogna cercare di restare in equilibrio e d'essere funamboli, altrimenti si ha
una visione unilaterale, e l’unilateralità è pericolosa perché è la condizione
della nevrosi.
Quando
si parla di teatro è di una disciplina, di una somma di cose, che si parla. Un
gioco di sincronia e di diacronia. Come è possibile parlare di costumistica
senza pensare alla scena? Si compongono fra loro, gli elementi che la
creano. Ciò che è sempre da evitare è la semplificazione.
–
Oppone la chiarezza alla semplificazione?
– Sì.
Per parlare di una lingua bisogna toccare il suo opposto, la
non-lingua. Allo stesso modo, per parlare del senso bisogna avere
a mente il non-senso. Ecco perché nella mia scrittura, prendiamo Luparella
che è il testo più “naturalistico”, immagino tutto: i bordelli, i casini, gli
esseri, a partire da suoni ascoltati, dalle persone. Tutto è reinventato a
partire dal mio mondo interiore, non dalla cronaca. È qui l’estremità di una
scrittura che, partendo da un’evocazione linguistica, spinge la parola fino
alle derive poetiche. E quando parlo di lingua penso sempre alla poesia, perché
solo la poesia può parlare pertinentemente di lingua. Solo la poesia crea la
lingua.
–
Quindi la creazione è dei classici e la poesia è il loro segreto?
–
Sicuramente. Il problema della lingua lo di può discutere, chiedersi se sia
invenzione o reiterazione, ma la poesia è creazione. Non solo di termini, ma
soprattutto di modi mentali di pensare la
parola. Non si può far nulla senza questi presupposti, anche se in
teatro le persone non lo devono capire, né sapere. Anzi è bene che non
capiscano nulla, come predicava Carmelo Bene. Capire non serve.
–
Quanto la pratica di convocare a sé autori e poetiche amate è nutrita dall’uso
di lingue che si fanno suono? È questa l'origine delle sue incursioni nel
francese, nel latino, nel napoletano?
– Il
mio poliglottismo, chiamiamolo così, è stato letto come conoscenza di più
lingue. Invece a me interessa praticarle attraverso il significante; la
sonorità, non il significato. Questo vale anche per il napoletano:
paradossalmente, mi è talmente vicino che non lo vedo.
È lo
stesso problema della traduzione. Tradurre, tradire sono legati al problema
dello sconfinamento: non si può esser fedeli a una cosa se non evadendone,
allontanandosi. In questo senso il mio poliglottismo è stato travisato, come se
rispondesse a un’esigenza semantica e non significante. In realtà è pura
significanza, e non ho inventato nulla: prima di me Carmelo
Bene intendeva la parola in teatro come sonorità, la cui
ridondanza e la cui confusione sono rumore e, dopo, suono.
Questa
compresenza di lingue nella scrittura si potrebbe chiamarla plurisonorità,
perché per me il teatro
nasce dall’esigenza di metter fuori le voci. Ho capito che devo far parlare gli
altri da me, quest’assemblea, e dò loro la
parola. Loro sono in questa forma pseudo-unitaria che è Enzo
Moscato. Se non fosse così la mia drammaturgia sarebbe diversa, e non si
affaccerebbe il plurilinguismo.
– In
lei l’apparizione di lingue è apparizione di forme. Come arrivano?
– Non
so perché in certi momenti la parola arrivi: siamo visionari della lingua e
della scena, visitati. Penso che il mio sia una forma di esperanto: a volte
sono vicino a un livello di comprensibilità, altre volte me ne allontano e vado
nei labirinti, mi tengo una frase per me, incatturabile. Bisogna salvare le
zone oscure. Lì c’è l’etico.
La
distanza serve per far venir fuori il vuoto, di senso, di personalità, di
intelligenza, che dà quella cosa particolarissima e bella che è l’assenza.
–
Quando, in Co’Stell’Azioni, lei scendeva fra il
pubblico e passeggiava al Museo Andersen infrangeva un codice ma al tempo
stesso aveva attorno un’aura e non era possibile rompere la distanza.
–
Raramente si ha l’impressione di cogliere il mistero del teatro. In alcuni momenti,
come in Co’Stell’Azioni, si può sentire una luce, un bagliore. L’attimo
dopo arriva inesorabile la
tristezza. Se si è attenti si può sentire quando c’è il pieno e
quando c’è il vuoto; uno spettatore attento lo cattura.
Negare
la comprensione definitiva di una parola nasce dall’esigenza del mistero. Gli
altri percepiscono questa macchia non capendola. Cerco la distanza, che anche
l’attore deve tenere, verso di me quanto verso se stesso. Poi, deve saper
essere presente: parliamo pur sempre di una dialettica, di una processualità.
Ma nessun aspetto può essere trascurato: il gioco della messa in luce dei
particolari avviene solo attraverso il confronto con le proprie zone d’ombra.
Se una cosa deve esser bella non si può ignorare la bruttezza, e se dev'esser
sopraffina si deve praticare anche l’ordinario, il comune. D'altronde, la
verità a teatro è ciò che non si nasconde. Cercare un’evidenza che possa non
manifestarsi.
– La
ricerca della verità, in questo senso, entra in conflitto con la forma della
scrittura?
–
Certamente, ma è un tentativo in buona fede. Se siamo fortunati la verità in
scena ci attraversa. È un’intermittenza. A volte, nelle foto di scena, ho visto
un non esserci degli occhi, dei lineamenti. Forse ero proprio là dove dovevo
essere, altrove.
– La
sua ricerca del ritmo è legata all'essere scalzo in scena?
–
L’ho fatto dall’inizio, da Scannasurece: permette uno scatto diverso. Ma
l'esser scalzo dipende da un estremo rispetto per il
teatro, che dovrebbe essere il modo di entrare in punta dei piedi
nell’anima di un altro.
Voglio
che le parole danzino. Non pretendo che un attore lo faccia: se non ha un ritmo
interiore, se non ha la scienza del numero è difficilissimo. La splendida
sequenza danzata del film di Almodovar Parla con lei, come farla in
teatro? In una chiave diversa, solo con la distanza e con la possibilità di
danzare che è nella parola.
–
Come cambia la lingua quando si alza e diventa corpo, per lei?
– Non
porrei una dicotomia netta fra la scrittura come corpo e la scena come corpo.
Quando scrivo penso a un corpo inchiostrale. Il passaggio alla scena genera una
deriva verso la somatizzazione della scrittura, certo, e lì accadono cose
strane, perché un primo confronto è il corpo stesso dell’attore, a monte c’è la
scrittura-corpo, poi il corpo-scena, poi il corpo estraneo del costume.
D'altronde Artaud scrive che esiste solo il corpo, intendendo per corpo tutto.
La cultura occidentale ha demonizzato il corpo, contrariamente a quanto ha
fatto l’Oriente, dove la cultura segnica, somatica, è molto più estesa.
Il
corpo è la realtà ma, contemporaneamente, è anche l’irrealtà: il nomadismo da
un corpo all’altro, da un organo all’altro, dalla gola alle mani, è
fondamentale.
L’attore
deve essere estraneo a sé per poter avere rapporti con la molteplicità di corpi
che sono in lui e deve poter transitare. Bisogna cercare di far baluginare i
corpi veri nell’eclissi del cosiddetto corpo reale. Che poi deve fondersi,
liquefarsi in un alambicco e far uscire fuori i nuovi arti o le nuove arti.
La missione
del teatro non consiste tanto trasformare l’attore come categoria, quanto
l’attore uomo. Questa rivoluzione è molto importante. Deleuze e Guattari negli
anni '70 hanno letto le opere di Artaud e anche di Bataille, proprio dal punto
di vista della filosofia corporea, ed è un loro grande merito. Per quanto mi
riguarda l’incontro con Artaud, il
grande orfano del teatro, il
grande padre del teatro, questo grande malato, mi ha dato
quell’asse che mi mancava per capire.
– Nel
rapporto con gli attori lei sottolinea l'accoglienza di ciò che in loro si
produce, come li dirige?
–
Sono critico verso la regia: se il
teatro è il regno della dialettica, della possibilità, della
virtualità dove far nascere altri possibili mondi non si può operare entro
imperativi categorici. Chi è il regista? È un dittatore che viene a porre dei
veti o, nel migliore dei casi mette la cappa sulle aperture possibili. Ecco
dove nasce il legame con la poesia, che è fatta di aperture, di associazioni e
possibilità. Posso suggerire, secondo la mia estetica, ma l’ideale è che si
coniughi e si doppi con il corpo reale dell’attore. Altrimenti è un gioco di
marionette.
Sono
contro ogni scuola che insegni l’imitazione, l’imitatio, l'amnesi,
perché il teatro è
trasfigurazione, e non copia del reale. Il tentativo è bucare il reale, per
vedere se sotto o dietro c’è un'ipotesi altra, di vita, di esistenza.
Altrimenti è evasione, ma non ha nulla a che fare col teatro, che è ricerca
filosofica e coniuga tutte le discipline, è polifonia.
Il
pensiero che riflette su di sé, la filosofia, serve a tenere le fila di questa
complessa cosa.
Non
mi piace un teatro che non contempli il metateatro: l’ottocentesco, il
naturalismo, chiamiamolo la favoletta, non m’interessa. Il metateatro può
riflettere su ciò che fa attraverso l’umano che è in lui. Tolti i Basile e i
Ruzante per le loro irruzioni brutali nella lingua, nel teatro italiano del
'900, Pirandello ha metateatralizzato il testo, e per altri versi anche
Viviani. Lo stesso Eduardo De Filippo testualmente è un epigono di Pirandello,
e lo fa con meno armatura filosofica. Perché Pirandello è siciliano, nato nella
terra di Empedocle, dei sofisti, dei razionalisti, e ha nel sangue
quest’abitudine a metariflettere.
–
Eppure Eduardo ha il dono di lasciar le cose in sospeso.
– Sì,
ma in lui il testo non si specchia. Eduardo ha però fatto una cosa
straordinaria: la decostruzione e costruzione di sé in scena in chiave
artaudiana. La crudeltà che ha esercitato sul suo corpo per farlo diventare
extraumano è la sua rivoluzione, la sua grande lezione. Lo stesso ha fatto
Totò, la disarticolazione somatica per far uscire un altro essere.
Bisogna
ricominciare a rispettare il mistero di questo lavoro.
–
Negli anni la sua parola è diventata offerta, meno nascosta, e questo passaggio
non ha cambiato la visionarietà della sua lingua. Che funzione ha la parola
nella sua scena?
–
Basta citare il verbo che si fa carne. Potremmo fermarci ai vangeli. A volte mi
allontano violentemente dal passato, ma cerco di fare anche il movimento contrario,
tornando in prossimità di ciò che ho lasciato.
La
parola ha il potere di far vedere senza indicare, senza mostrare. Credo che in
me risalga all'infanzia, all'ascolto delle favole, e alla scoperta del potere
incantatorio della parola. Tutti i bambini ricordano favole belle o brutte, e
mai hanno avuto bisogno di crearsi l’ambiente perché con la mente vedono. Già i
tragici, i greci, avevano questa ratio obliqua, il dramma o anche la
commedia, e tutto era puramente evocato.
– Era
la creazione del mondo. Quindi se la regia vuole visualizzare cade
nell’equivoco che acceca l’immaginazione?
I
piani sono molteplici. Credo si debba creare un piano metaforico, un piano
letterale, uno analogico, e anche uno temporale. Non si sa a cosa lo spettatore
sia incline, ma si deve prendere ciascuno in sala. Potrebbe recepire solo un
livello, ma deve trovarlo.
Certo,
lo spettatore ideale è quello che coniuga, e quindi si deve lavorare su un
ventaglio. Un testo deve avere una storia, un significato, ma al tempo stesso
devo tentare di cancellarli. Ciascuno porta in scena la propria singolarità, ed
è una delle magie del teatro. L’originalità è nel mettere in rapporto la
propria cultura con quella che preesiste, con la tradizione.
Chi
fa un'operazione letterale, magari anche accurata, non apre. Io lascio sempre
un resto. Il resto è la vita, è l’irrisolvibile della vita, la sua malattia
irrisolvibile. Quando lo spettatore esce col resto è bello. Anche per questo i
miei spettacoli sono brevi: lavoro sulla insazietà. Deve mancare sempre
qualcosa, il manque..
– E
oggi cosa manca al teatro?
– Il
terrore, l'idea di pericolo. A partire da quello che si prova recitando. Perché
esorcizzarlo? La gente non vuol pensare, e le esistenze sono occupate da falsi
sistemi di rassicurazione. Qualcosa che faccia scattar l’allarme deve pur
esistere, è sano e bene. In Delitto perfetto Baudrillard parla
dell’uccisione progressiva della realtà, ammesso che esista. Diciamo quella che
storicamente abbiamo considerato tale.
Se si
è fuori dalla realtà si è nel gorgo del virtuale, del possibile, diverso da
quello del teatro, perché non è una conclusione subita ma voluta, quella del
teatro. Quindi le visioni combaciano.
– Il
confine fra pericolo e libertà è in gioco...
– Gli
eterni temi della vita: determinismo e libero arbitrio, è sempre tutto lì.