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Jannis
Kounellis vive accanto alle antiche mura del Partenone, alle luci di
Rembrandt, ai silenzi delle chiese medievali, accanto alle sagome
tagliate delle piramidi d'Egitto, alle parole con cui Shakespeare ha
dipinto Ofelia, e il suo sguardo lega forme diverse alla domanda che
guida il suo lavoro. Definire la forma di una presenza fusa con
l'opera, che sappia abolire le distanze facendosi tutt'uno con il
quadro. Sia esso musicale, pittorico, letterario, teatrale.
– Nelle sue pitture c'è sempre, fin dagli anni '60, la
presenza di materia povera. È cambiato oggi il suo rapporto con la
materia?
– Non ho mai pensato la materia. La mia generazione e io stesso
nasciamo dalla crisi dell’informale e quindi non penso la materia, e mi
rifiuto di credere che un sacco di carbone sia materia: non lo è. Un
quadro di Fautrier è materico, anche un quadro di Tapiès lo è. Un peso
non è un’ipotesi, determina uno spazio. Quindi non è materia.
Questo sacco che lei vede è come un affresco, ma non è messo lì con la volontà di fare un quadro materico.
– Lei ha spesso condannato l'ornamentalità nell'arte. Mi piacerebbe ne riparlasse.
– Ornamentale è un termine negativo, comunque. Non si può pensare ai Capricci
di Goya in senso ornamentale. Oggi c’è abbastanza cinismo per accettare
anche questo, ma è solo cinismo. Nella tradizione occidentale è
impossibile pensare che Caravaggio sia ornamentale.
– L’uso della materia in senso non scenografico è per lei volontà di travalicare il quadro, di uscire dalla cornice?
– Il problema di uscire fuori dal quadro è quello di conquistare il
mondo, in senso dialettico. Non è né negativo né futuribile. Noi
eravamo una generazione del tardo dopoguerra, e quindi questo dialogo
era d’obbligo. Esisteva anche prima, naturalmente, però abbiamo vissuto
in un certo isolamento, e siamo riusciti a capire, a entrare. Erano
momenti diversi, politicamente e ideologicamente diversi. Esisteva una
componente ideologica, in quel progetto, e d'altronde esiste sempre,
c'era anche nella controriforma.
Non voleva dire esser marxista o un’altra cosa, ma porsi di fronte al quadro. Io penso di essere solamente un pittore.
– Solamente un pittore. A cosa contrappone questa affermazione?
– L’uscita dal quadro per me non è mai stata una novità, è una
condizione, benché sia cresciuto nella logica di "fare il pittore", ed
è una logica che non ho mai abbandonato.
Uscir dal quadro non era un segno di improvviso modernismo. Anzi, direi
che c’era del conservatorismo, in questa volontà. Nel novecento, dopo
il periodo futurista, il ritorno è stato un evidente sbaglio. Dopo
Carrà doveva esserci un'apertura totale, capace di arrivare lì dove
sono arrivati, nella loro pur diversa radicalità, i russi. È mancato il
coraggio intellettuale, per questo il ritorno è stato dannoso.
Si può solo andare avanti, non c’è nessun ritorno, e non c’è neanche il tempo di tornare.
A meno che non si voglia un panorama di cose melanconiche. Allora il
ritorno è impossibilità di andare avanti. Il ritorno all’ordine è un
fatto senza dubbio negativo.
– Anche pensato come formalizzazione di un’opera?
– Sì. Il ritorno all’ordine nell'arte è degli anni '30. Si è
creduto che prima ci fosse stato disordine, con le avanguardie, e si è
tornati da pentiti. Ancora oggi non lo capisco: il disordine è un
ordine, in realtà, in se stesso. Non si può tornare a una logica
precedente, intesa come identità.
Ogni apertura ha qualcosa di negativo, ma ha anche felicità. Però,
per poterla vivere, bisogna avere un centro, altrimenti ci si perde, se
si è senza riferimenti. Pensi ai poeti dell’ottocento che amiamo: la
loro centralità era la lingua, e questa non può esser perduta.
Altrimenti tutto è solo un gioco.
– La lingua intesa come grande tradizione, che costituiva una centralità?
– Certo. Non la si deve perdere: quando si parla di radici
ipotetiche è di riconoscimento che si parla. Riferirsi a quello che da
lì prende inizio, e tutti i riferimenti successivi conducono nello
stesso punto d'origine. La vita poi è espansiva, naturalmente. Ma il
riferimento non cambia, altrimenti si diventa nomadi senza una meta.
Noi, malgrado l’idea di nomadismo sia molto affascinante, non siamo
nomadi.
– Quindi la nostalgia della centralità di cui lei ha parlato è in realtà la ricerca del centro?
– Non è lì il problema. Il problema è fare lavori che siano
coerenti: dalla fine del quadro nascono nuove cose, e da quel momento
il quadro è considerato in un’altra maniera. Ad esempio, oggi è molto
difficile concepire un quadro tonale, perché non c’è una società come
quella degli anni '30 che favoriva il tonalismo. Non voglio certo dire
che tutto si faccia per la società, ma è impossibile tornare in quel
clima poeticamente crepuscolare.
Forse lo si ritroverà quel clima, perché niente si perde, e forse
ciò che non si perde può, da un momento all’altro, diventare un punto
di attrazione. Ma lo considero improbabile perché in questo momento i
mezzi non coincidono.
Questa apertura senza fine ha forse un destino già disegnato.
Penso ad esempio a quel giovane artista, Rimbaud, che andava in Africa;
è straordinaria la sua apertura. Di questo parlo. L’altra cosiddetta
apertura che riguarda la liberalità del mercato o non so cos’altro
manca di un progetto. A noi manca completamente un’idea di popolo, e
credo che il popolo sia importantissimo perché è fonte di cultura, e
quindi di espansione. Il popolo è la centralità e, se manca quello, la
confusione dilaga.
– L’assenza di popolo cosa produce?
– Molta astrazione, non solo nell’arte ma anche nella politica.
Lo si vede: il desiderio non è lì dove lo si pone, e le problematiche
sono astratte, anche nel loro buon senso sono comunque astratte. A
livello amoroso non sono giustificate. Non se ne vedono i contorni e
una simile assenza genera un movimento che non produce ombre. Questo
perché l'idea di popolo esistente è completamente virtuale.
Fantasmagorica, ed è tipico di questa fantasmagoria il non produrre
ombre.
– Quindi neanche corpi?
– Non produce niente. Solo velocità, semmai, ma mancanza di senso. Ecco, è questo. Non
può produrre ombre perché manca una strategia. Oggi tutto è molto
veloce ma, per ciò che riguarda le idee, viviamo in un mondo immobile,
stagnante. Non veloce ma gesticolante. Il futurismo è velocità:
interpreta un cambiamento, il risorgimento, cose reali che sono a cuore
a tutti, anche a coloro che lo fanno. Se non è così è un gioco
dell’intelligenza, ma negativo perché manca di nobiltà. Diventa
isterismo, se non nasce né da drammi né dai valori. Non si può
dimenticare che, nell’arte moderna, il cubismo ha cambiato molte cose,
ha prodotto una vera frattura. Ha interpretato e cambiato. Se non altro
è tornato a prima dell’impressionismo, e in quel caso il pittore era
artefice dei cambiamenti. Se non fa questo segue, senza poter mai
intervenire formalmente.
– Lei ha avuto rapporti con alcuni autori teatrali tedeschi,
ed ha fatto le scenografie di uno spettacolo di Heiner Müller. Qual è
il suo rapporto con il teatro e con la Germania?
– Con Heiner Müller eravamo amici. A Berlino, all'epoca in cui
cadde il muro, al Deutsche Theatre collaborammo per uno spettacolo
bellissimo. Era Mauser, parte di una trilogia molto forte i cui altri due capitoli erano Filottete e L'Orazio. Mauser nasceva da una rilettura e analisi del teatro di Brecht e in un certo senso insegnava a morire.
Ma ho fatto anche teatro musicale: Wagner, o l’Elettra di
Strauss a Berlino. Sempre autori tedeschi, che amo molto perché
possiedono una grandiosità moderna: loro partono dal tragico, mentre
noi partiamo dal drammatico. Questa caratteristica della cultura e
della musica tedesca e austriaca è portatrice di grandi novità.
– Continua ad esserlo ancor oggi?
– Wagner è l’inizio del moderno.
– La persistenza del tragico nella loro cultura cosa genera?
– È la differenza. Se affiora il drammatico nel cinema c’è già
una positività: se questo elemento c’è, c’è un’apertura, uno squarcio.
Nel tragico si sottolinea il destino, inteso come fato.
– Lei è nato in Grecia, la culla del tragico...
– Beh, lì qualche cosa ne sanno, anche oggi. Basta guardare la
differenza fra il Partenone e quello che c’è intorno e si capisce: la
follia architettonica di Atene è la scrittura del destino della storia.
Noi siamo dei costruttori e, se per qualche motivo costruire è
impossibile la sola alternativa è distruggere. L’Italia per fortuna ha
una felicità armoniosa, quindi è ancora vivibile. In Grecia si vive
nell’ottusità quotidiana. Anche questa è una condizione, ma può essere
una condizione terzomondista, e questo per la Grecia non è coerente,
perché tra Platone e il terzo mondo non esiste rapporto. Forse lì
risiede il dramma, e si sente. Loro non stanno nei loro panni, però non
si può cambiare il destino. Quella greca è una cultura fondamentale.
Nel mondo di oggi crea isolamento, ma resta fondamentale, ed è un
conforto, possederla.
– In questo momento in cui molto vacilla e il senso si diluisce l’arte può, secondo lei, esser considerata un atto di resistenza?
– L’artista vive anima e corpo la sua realtà, quindi non è mai
resistente. Non può esserlo. È sempre artefice, anche nella cattiva
sorte. Forse il termine resistenza segna un confine, e l’artista ha
bisogno di ampi confini perché sta dentro. È talmente chiuso dentro che
non ha mai bisogno di resistere. Vive con maniacalità la sua posizione,
ma non ha un disegno, politico o di altra natura. È all'interno.
– Che rapporto c'è fra il teatro e l’arte, quale delle due forme è in anticipo secondo lei?
<br>
–
Dipende da cosa si intende per teatro. Nell’ottocento ci sono state
commedie di vita quotidiana terribili, centrate su una struttura
rigidamente familiare da cui non si usciva: lui lei e l’altro. Forse
all’epoca avevano una loro ampiezza come fenomeno ma erano di una noia
mortale, rinchiuse nella psicologia.
Nel cubismo, che è antipsicologico, ci sono valori linguistici: il
pittore è lì, di fronte alle forme, e ci ragiona. Il problema è che la
psicologia cancella l'epicità, perché riconduce ogni cosa al personale.
Certo, molta gente soffre, senza dubbio è così, ma non capisco perché
io debba interessarmi alle piccole sofferenze. Soffro anche io ma non
ho il tempo necessario di occuparmene. Non in questi termini almeno.
Non mi interessa andar a teatro a vederlo. Ci sono stati anche prima
pittori che hanno dipinto corpi decadenti. Solo corpi decadenti. Forse
lì un fattore psicologico c’è, ma c’è anche la voglia di quel pittore
di vedere quel corpo, e non posso interessarmi al suo piacere, né
intervenire: è un suo piacere. Il pittore Freud sta dentro ai suoi
corpi, a volte disfatti, a volte caricaturali. È la sua monotonia di
fronte al cavalletto: fa sempre quel soggetto, che a lui piace perché è
lui stesso e trova nell’altro un decadimento che è un piacere. Questo
non è semplicemente psicologico, è un piacere. Dal momento che, alla
fine dell’epoca ellenistica, le regole sono cambiate e abbiamo saputo
che il corpo invecchia, questa è un'ulteriore conferma
dell’anticlassicismo. Ma non è un atto di testo psicologico.
– Facciamo un esempio: Feydeau lo ha fatto attraverso la
creazione di situazioni psicologiche quotidiane, individuali e vicine
ad ogni spettatore. Ma lo si può fare anche attraverso il linguaggio,
che crea. Penso a Beckett…
– Non so se Beckett lo faccia. Lui mette un corpo dentro il vuoto,
questa è la sua invenzione. Quel corpo vive senza ambiente. Nei suoi
quadri manca il necessario per vivere. La sua ossessione è il corpo, è
ciò che a lui piace, ma potrebbe anche essere un sacco, non
cambierebbe. Dipinge senza una storia letteraria. O, se una storia
letteraria c'è, c'è fino a un certo punto. Bisogna saper vivere il
rapporto monotono con un corpo.
Quando manca il decoro del quotidiano è molto difficile vivere con
l’altro corpo: basta allungare una mano e lo si tocca, dalla mattina
alla sera.
È un rapporto speciale, il quotidiano, nel quale entra il caffè, i
mandarini, gli oggetti, e quindi il corpo è investito di
quell’adattamento e ci vive dentro. Quando lo si mostra come fa Beckett
è un corpo solitario. Si vive con l’altro corpo di cui si sente il
respiro.
Io lo trovo bellissimo, il rapporto stretto. Anche il pittore non deve
mai allontanarsi troppo da quello che dipinge: essere attaccati, non
avere una distanza critica, non riuscire a vedere le tonalità e le
armonie, ma vivere davanti come un monologo.
È questo, ma è molto difficile perché non è per una volta, è per sempre. Questo crea la diversità.
– In questa ottica parlare di una differenza fra musica, cinema, arte diventa irrilevante…
<br>
–
La prospettiva è quella di un uomo in un angolo: c’è una categoria di
persone che si pongono così, Beckett come Pollock. Vivono il quadro
dall’interno e non da fuori. E questo è importantissimo perché non c’è
alcun segno di ripetizione. Non è una cosa oggettiva ma è un fenomeno
che si produce ogni giorno, e questo è anche un destino, forse è anche
un’idea della morte, e quindi anche un’idea della vita. Si vive in
quella maniera, e non in un’altra, sperando che a livello emotivo
paghi.
– Dal momento in cui lo si formula così non può esser diversamente: paghi o non paghi altro modo non c’è, credo…
– Sì, se non paga vuol dire che c’è un dubbio, altrimenti in realtà
deve pagare. Ma si vive, anche, e i dubbi nascono con la vita. È un
rischio da correre.
Da una conversazione con Jannis Kounellis a Roma, il primo gennaio 2004file:///C:/Documents%20and%20Settings/gioia%20costa/Documenti/Immagini/26-12-2009/MAH00014.MP4 |
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