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Il desiderio di libertà che muove la creazione e la allontana dagli spazi tradizionali, il carattere autoriflessivo della recente esperienza del teatro italiano e la sua ricerca di novità, la differenza fra credibilità e verosimiglianza nella costruzione di uno spettacolo ma anche una riflessione, alla vigilia della guerra, sull’abitudine a trasformare ogni gesto in rappresentazione. Al Teatro Comunale di Bologna dove sta provando Giulio Cesare, Luca Ronconi si è soffermato su alcune emergenze del suo lavoro, e la cura con la quale ogni concetto assume forma, e con questa vigore, delinea una figura la cui ricerca è raccontata da spettacoli che hanno segnato la scena teatrale italiana.
Gioia Costa - Lei ha creato, fin dall'Orlando Furioso, un teatro impossibile. Penso a Gli ultimi giorni dell’umanità, ai Dialoghi delle Carmelitane o, più di recente, a Infinities, o Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, I fratelli Karamazov, per citare solo i più noti.
Qual è stata l’evoluzione del suo percorso artistico negli ultimi anni?
Luca Ronconi - Sono ancora da fare! Posso dire che da tredici anni lavoro all’interno di strutture pubbliche, cosa che non avevo mai fatto prima, e non so se sia corretto far coincidere le responsabilità gestionali con lo sviluppo artistico. Ho sempre cercato di tenere le due cose separate perché richiedono capacità diverse. Per questo, spesso ho voluto creare attriti fra la parte artistica, culturale, e quella gestionale.
La mia esperienza è contrassegnata da una certa ubiquità, e non mi identifico con quanto ho appena fatto. La curiosità, il desiderio di vedere cosa succede altrove, non solo in altri paesi ma altrove qui, questo mi muove. Il referente dei teatri pubblici non è più, com’era quando cominciammo, solo lo specifico teatrale. Hanno dei proprietari, gli enti locali, ed è naturale, legittimo, che facciano sentire la loro voce. Altrettanto naturale è che chi ha un rapporto più forte con il territorio artistico senta questa legittimità della proprietà come qualcosa cui non si può rispondere con la ragione, secondo le loro richieste. Oggi sento il desiderio di una libertà maggiore e non so se, né quanto, questa fase continuerà.
G. C. - Lei crede che il teatro non sia uno strumento. Lo considera ancora oggi un valore?
L.R.- Si, di certo, ma è un aspetto minoritario, e non esclude che esista un deprezzamento della qualità artistica. Il teatro non deve essere élitario: la sua sopravvivenza dipende dal riuscire a costituirsi come valore per qualcuno, e non solo per chi lo fa. Uno dei problemi del nostro teatro è l’autoreferenzialità. Sono famiglie, ed occorre fare una analisi sui rischi che tale atteggiamento comporta. Un eccesso di autoreferenzialità nasconde e copre le qualità.
G.C. - Quali rischi corre secondo lei il teatro italiano contemporaneo?
L.R. - Prima di tutto bisogna chiedersi quale sia. Oggi il pubblico vuole spettacoli musicali, e al tempo stesso assistiamo al proliferare di gruppi e alla nascita di un attore che è una creatura televisiva cui si dà il palcoscenico. Tutto questo è vero, quindi è lecito. Io, però, non mi riconosco in alcuna di queste tipologie. È difficile esprimere un giudizio globale e generale. Lo si può fare solo nello specifico, sui singoli artisti. Il teatro italiano è un corpo che si è parcellizzato. Viviamo in un’epoca caratterizzata dalla perdita di memoria, e la mancanza di contatti fra le generazioni fa credere nuove cose già esistite, e magari dimenticate. Senza memoria c’è miopia e ingenuità. Una difficoltà della nuova generazione teatrale è la durata: la non consapevolezza di quanto è già stato visto in ciò che si crede di fare per la prima volta. E poi, molti talenti giovanili hanno difficoltà a diventare adulti; spesso lo attribuiscono al sistema, come i figli che danno ogni colpa ai genitori. No, ciascuno ha le sue responsabilità. In teatro si cerca la sincerità e la novità, ma devono essere accompagnate dalla conoscenza di ciò che di nuovo è stato fatto prima, altrimenti la forza delle opere si esaurisce rapidamente, e questo è un impoverimento.
G.C. - Da alcuni anni assistiamo a un forte ritorno dell’immagine, che prevale sulla parola. Cosa pensa dell’uso delle nuove tecnologie che oggi dominano la scena?
L.R. - Tutto si può usare per fare teatro, ma è semplicistico adoperare elettrodomestici in quanto novità: fuori dal palcoscenico nessuno li usa perché sono nuovi, ma perché sono utili. Spostare l’attenzione dalla utilità alla novità di un mezzo fa sembrare tutto subito vecchio. La ricerca della novità è sempre ingenua e grossolana… La pertinenza cerca altro, e usa ciò che trova. Quando un genere diventa stile è subito accademia, e se il nuovo è uno stile ha vita breve: è sempre stato così.
G.C. - Se il teatro è ancora oggi un valore, che posizione deve assumere?
L.R. - Non credo alle cordate. Anzi, sono pericolose: il primo che cade trascina tutti con sé. Per questo ho sempre lavorato con attori di tutte le età, eludendo il pericoloso: “ci capiamo perché siamo uguali, abbiamo le stesse abitudini”. Una delle prerogative del teatro è che accada fra chi non si conosce. Deve essere un fattore di conoscenza, è questo il suo valore. Quindi, una cultura generazionale è pericolosa, tanto più ora che le generazioni durano cinque anni e, ahimè, la liquidazione è rapida. La durata è l’elemento positivo e necessario, e a coloro che lavorano con me nelle scuole chiedo come proiettino la loro attività futura nel teatro: non deve essere a termine, bisogna rigenerarsi sempre. Il teatro è supergenerazionale. È però innegabile che, se negli anni Cinquanta il pubblico voleva conoscere le novità americane o sapere cosa si scrivesse a Londra, oggi questo non è più vero. Ho sempre cercato di creare fasce di pubblico alfabetizzato operando anche esclusioni, giudicate spesso con severità dal mondo teatrale. Però i risultati ci sono. Se non pensiamo al pubblico ma all’audience la causa è persa. Il teatro non può accontentare tutti, e si deve accettare l’esclusione, come nella vita. Contro la memoria accecata bisogna avere il coraggio di scegliere.
G.C. - Quali sono stati gli incontri importanti della vita?
L.R. - Pensando a certi modelli drammaturgici, come il dramma elisabettiano o il giornale parlato, o a spettacoli come Gli ultimi giorni dell’umanità di Kraus parlerei piuttosto di ricognizioni. Ed è diverso: un incontro presuppone una reciproca conoscenza, mentre la ricognizione contiene solo la tensione verso, e la conoscenza può non esserci. A volte mi avvicino a un testo, a un luogo, o anche a una persona, e finché l’intimità dura mi sembra di conoscerne tutto. Ma quando si interrompe io non ricordo più nulla. Questa deve essere la differenza fra conoscere e sapere. Qualche cosa ne so, ma fortunatamente dimentico di saperlo.
Un vero incontro, per me, è stato la scoperta della differenza che c’è fra un palcoscenico e un altro luogo, non nato per la rappresentazione. Quella consapevolezza è ancora importante. Come lo è la scoperta dell’attrito che può esserci fra la forma letteraria e quella drammaturgica. Ma anche ripensare all’idea di ruolo: spesso ho chiesto alle attrici di far la parte di uomini, o di cambiare età, come Mariangela Melato che è Maisie adesso. Ho capito che si può raggiungere la credibilità attraverso qualcosa che non è la verosimiglianza. Dimenticare identificazione: questo è stato un altro incontro importante.
In realtà ogni incontro, anche nella vita personale, è preparato, ed è reso necessario da cose precedenti: incontri mancati o percorsi intimi o carenze. Lo si prepara senza saperlo, e poi assume il carattere della folgorazione. Ma indubbiamente il momento della folgorazione è preceduto da piccole cose delle quali non siamo consapevoli che ci hanno portato lì. Se non fosse necessario, e preparato, non si produrrebbe.
G.C. - Quando si diventa “maestri” si porta con sé non solo un’idea della scena ma anche uno sguardo con il quale leggere la realtà. Cosa pensa di questa situazione internazionale gravissima, alla vigilia del rischio di una guerra senza precedenti?
L.R. - Dichiarare una guerra significa legittimarla: non si può invocare il disarmo con le armi in pugno. No. Non mi sentirei di difendere Saddam Hussein, ma la guerra non si deve fare. È un evento disastroso, il più grave della storia. Pensare di liberare un paese da un dittatore prevedendo un simile numero di vittime, di vite sacrificate, è atroce. Nulla ha mai provocato una mobilitazione così dichiarata. Questo è positivo, ma anche rischioso: se la guerra ci sarà, ogni possibilità futura è nella convivenza e nella tolleranza. Avvenimenti che spaccano un fronte sono pericolosi. Forse un punto di non ritorno potrà essere una cosa necessaria. Se questo sarà vero è ancor più spaventoso. Il modo infantilmente pretestuoso di prendere di mira una figura raccapricciante come quella con la quale gli Usa vanno in guerra - che è un pretesto, perché sappiamo che il male è in un effetto generale -, può rompere l’immagine di un mondo a senso unico. È terrificante immaginare un luogo senza un altrove, è spaventoso, e nessuno potrebbe viverci. La nostra condizione umana pretende la libertà di scelta permanente, e cancellarla è atroce.
G.C. - Crede che occuparsi di teatro in questo momento possa ancora essere un “atto di resistenza”?
L.R. - Anche nel suo carattere ludico, il teatro è una attività che ha e deve avere dignità. E quell’elemento di dignità, che è proprio di ogni attività umana, deve essere preservato a tutti i costi. Domani, la prima cosa da fare sarà ricostruire. Si deve fare di tutto per evitare le rovine ma, nel momento in cui si accende la miccia, sappiamo che le rovine ci saranno. Allora si deve pensare subito a cosa fare di quelle rovine e a come non renderle vane. A Berlino i teatri erano pieni sotto le bombe: si facevano gli spettacoli di giorno, ma il teatro era portatore di verità e di identità. Indubbiamente da questo momento, comunque se ne esca, ci saranno state vere perdite. Non solo di vite umane.
G.C. - Finirà l’idea di sicurezza…
L.R. - Idea nella quale ci si è crogiolati un po’ troppo… uno dei fenomeni più allarmanti dei nostri anni è l’indifferenza: anche l’atteggiamento contrario alla guerra rischia di diventare una rappresentazione ennesima, a lungo andare. Adesso funziona, ed è anche positivo, purché non prevalga poi il gusto della rappresentazione. L’indignazione deve poi trovare degli sbocchi e ognuno di noi dovrà fare i conti con la responsabilità che quella rappresentazione comporta. Non si potrà continuare così, si dovrà fare qualcosa di più determinato, più forte e quindi anche più difficile per ciascuno. E questo è il solo aspetto positivo che io riesca ad estrapolare.
Da una conversazione con Luca Ronconi avvenuta il 19 marzo 2003 al Teatro Comunale di Bologna |
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