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Isa Danieli   PDF  Stampa  E-mail 
Un incontro è una possibilità, l'occasione per vedere altrimenti ciò che si credeva di conoscere. Quello fra un'attrice di tradizione tenace e generosa come Isa Danieli con una lingua che in ogni sua scansione è la più forte traccia dell'idea del teatro, la lingua di Carmelo Bene, è un incontro inatteso. La scommessa, suggerita da Rodolfo Di Giammarco, è dar voce a 'l mal de' fiori di Bene. Libro privato anche della voce del suo autore, che il 30 luglio avrà battesimo a Salerno, al festival "Emozioni/Teatro e nuovi linguaggi". Abbiamo incontrato questa signora del teatro, che ha legato dieci anni della sua vita artistica a Eduardo De Filippo, con il quale debuttò sedicenne, e che ha poi lavorato con figure emergenti della scena e dello schermo, da Strehler a Moscato, da Scola a Tornatore, da De Simone alla Wertmuller o a Giuseppe Bertolucci. Le abbiamo chiesto come sia incontrare la lingua di Bene. – Davanti a una possibilità così, dire di no non è stato possibile. Non potevo rifiutare questa sfida. Mi ha chiamato Di Giammarco chiedendomi se avevo qualcosa da proporgli per le serate salernitane in questo castello Arechi. Non avevo nulla, né volevo. Ma lui mi ha fatto il nome di Carmelo… come resistere? Certo la sfida è grande. Mi aiuta, però, sapere che 'l mal de' fiori non è mai andato in scena, che nemmeno Carmelo lo ha mai letto. Questo mi ha dato la forza di accettare. Era davvero troppo per dire no. Diciamo la verità: è un poema complesso, difficile, un linguaggio completamente reinventato. D'altronde, Carmelo inventava qualsiasi cosa facesse – era la sua grandezza, la sua genialità – ed è questo quello che di lui ho più amato. Da giugno, per 'l mal de' fiori, ho abbandonato tutto il resto, e la mattina ho i miei beati incontri con Carmelo. – Sta lavorando con Davide Riboli, che tanti anni è stato vicino a Bene… – Davide per me è un grandissimo aiuto, al di là della sua simpatia e degli aneddoti che ci raccontiamo. Quando non lavoriamo, mi parla di Carmelo e io degli anni con Eduardo. Forse, senza di lui, non ce l'avrei fatta. È generoso. - Avete scelto le liriche in lingua… - Una in dialetto c'è, ma solo una. Altrimenti sarebbe stato troppo difficile, e non c'era il tempo necessario. Il progetto è nato a metà giugno, e da allora ho iniziato a studiare e a cercare di capire. Tento di dare il massimo, proprio perché sono un'attrice completamente diversa, opposta a Carmelo Bene. Ricordo, ed è un conforto, il famoso incontro fra Carmelo e Eduardo. Erano due personalità straordinarie, due giganti. Attori, ma anche autori e pensatori della scena. Se loro si sono avvicinati questo avvicina un po' anche me. Non lo dico per falsa modestia: ho a che fare con un linguaggio completamente suo, che è a un'estetica della scena, perché è la parola di un poeta. La consideravo lontanissima da me, pur ammirandolo tanto. Forse, invece, avvicinarsi è possibile. – Per la prima volta, in questa serata, userà il microfono. Com'è stato per lei scoprirlo? – Con Davide abbiamo provato a casa mia, e mio marito ha messo insieme dei fili creando anche il microfono. Siamo in una stanza, eppure usarlo per me è stato folgorante: mi sono resa conto che con un microfono si creano possibilità foniche ed emotive importanti. Sarà uno shock in teatro perché avremo solo un giorno di prove al castello, magari nel pomeriggio stesso, e ora provo solo a casa. Ma capisco che si possono avere effetti straordinari. E così capisco ancor di più Carmelo. - Si riferisce a ciò che diceva Bene, quell'uscire dal corpo attraverso il microfono? – Mi ha ricordato quando per la prima volta ho messo la maschera, nell'Edipo Tiranno diretto da Besson. Vittorio Franceschi faceva Edipo, io Giocasta e Tiresia. Avevamo tutti, coro compreso, le maschere. Mi sono resa conto che l'attore può davvero, fisicamente, dare di più e il movimento cambia, si ha più libertà. Lo stesso mi è successo con il microfono. Qualsiasi vergogna, sembra un'esagerazione ma è così, scompare. Perché si ha l'impressione che dall'altra parte non vedano. La voce, a volte, è come un soffio, magari rauco, di cui però non ci si vergogna, mentre senza microfono mi sentirei impacciata. – Eduardo lo si ricorda ancora soprattutto come attore. Ma è stato un pensatore del teatro, ed ha messo in crisi la scena, con quel sarcasmo sempre fuori e dentro il racconto, in modo definitivo. La vicinanza con De Filippo, come la accompagna nell'incontro con Bene? – Eduardo è in ogni mio varcar le quinte, per quello che insegnava senza insegnare. In cattedra ci si è messo solo quando era vecchio, e meno male. Ha riunito i giovani attorno a sé insegnadogli tantissime cose. Con noi non è mai stato così, noi si lavorava, e imparavamo guardandolo. Non ci ha mai spiegato cosa dovevamo fare. Ma oggi, se faccio una pausa, se è lunga o meno lunga, me lo ha insegnato lui, come farla, ma non me lo hai mai detto… – Avevano qualcosa di affine, secondo lei? – Ci sono in entrambi momenti nei quali non credono a quello che può essere il teatro. Una delle cose che più mi hanno colpito di Carmelo, e che leggerò, è l'ultima frase di un poema. Bellissima: "…Mani / dannate a chiappar mosche soffio stringer / di vento a l'inatteso / grattar prudori astrette a serrar mani / altere Al plauso atroce nei teatri". Questo mi fa pensare per forza all'ira di Eduardo quando capitava che, in battuta, il pubblico applaudisse spezzandogli la frase. Si infuriava. Certo, Carmelo gli applausi non li voleva proprio. Lo sappiamo tutti. Ma chissà a cosa pensava, scrivendo. L'Unità, 30 Luglio 2004

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