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Essere eredi è difficile. Ciò che resta dopo una scomparsa cambia
inevitabilmente di segno, trasformandosi. Ricevere l'eredità di un
metodo e di un pensiero è una responsabilità e un destino: si è
responsabili di ciò che si ama. La scomparsa di Grotowski ha
lasciato a Thomas Richards, e con lui a Mario Biagini, l'eredità di una
riflessione sulla scena fondamentale. Ma anche segreta: gli ultimi anni
sono stati dedicati a una ricerca condotta nell'isolamento più
drastico, e da questa prassi di lavoro, che era anche una scelta di
vita, la ricerca sui canti, sulle tradizioni e sulle risonanze che esse
contengono nel corpo ha portato il rigore di un'idea a risultati ancor
oggi da indagare. Al Workcenter, che Roberto Bacci e Carla Pollastrelli
hanno difeso per Jerzy Grotowski consentendogli di lavorare in una
situazione ottimale dagli anni Settanta alla fine degli anni Novanta,
Thomas Richards – che ha studiato con Grotowski dal 1986 – persegue la
linea impressa da Grotowski aprendo il gruppo di lavoro a nuove, rare,
presenze. Nell'ambito del festival Fabbrica Europa hanno presentato ad
alcuni ospiti Action, uno studio sui canti caraibici svolto da loro nell'isolamento e non pensato per un pubblico. Adesso stanno preparando Dies Irae, di cui è stato possibile vedere una tappa in ottobre.
– Il vostro lavoro indaga le origini e, fra queste, da sempre il canto. In Dies Irae c'è anche una esplorazione del maschile e del femminile, che sono territori da voi distinti. –
È vero: nella struttura di Dies Irae, in alcuni frammenti, è evidente
la presenza di un coro maschile, guidato da Mario Biagini, e di un coro
femminile, guidato da Gey Pin Ang, ma non è la dimostrazione di
un'idea. La distinzione è nata durante le prove. Il processo che ci ha
portato allo stadio attuale è stato lungo e complesso. Dies Irae è il
risultato di un lavoro di anni e al contempo un inizio nuovo. Prima
abbiamo fatto One Breath Left, creato dapprima con attori asiatici e
nel quale abbiamo poi integrato il resto della squadra del Workcenter.
Del gruppo iniziale di origine cinese oggi rimangono due attrici, Gey
Pin Ang e Pei Hwee Tan. Dies Irae è nato dal desiderio di
approfondire quella ricerca, e anche dalla volontà di esplorare i modi
di funzionamento del canto gregoriano, mettendoli in relazione con
materiale testuale occidentale contemporaneo. Lavoro con Mario
Biagini dal 1986 e con Gey Pin Ang da più di cinque anni; entrambi, a
livelli e in ambiti diversi, hanno la maturità e le qualità
indispensabili per assumere le funzioni centrali in Dies Irae,
e da questo si è elaborato il resto. Quando sono emersi i due poli, che
erano loro, è nata la distinzione maschile / femminile, ma non era
un’evoluzione progettata a priori. Però è interessante che,
procedendo, la voce maschile sia diventata in parte la voce della
negazione, del no, del contrasto, mentre quella femminile è diventata
la voce del sì; ci sono per esempio momenti nei quali lo stesso testo è
detto dalla donna e poi è ripetuto dall'uomo con un'altra serie di
azioni, che hanno una forte carica negativa. In Dies Irae vediamo
una sorta di strana cerimonia al cui centro è la donna, Gey Pin Ang;
lei è sempre in bilico fra la vita e la morte, cerca risposte e produce
azioni che esplorano questa zona limite. L’uomo (Mario Biagini), guida
invece la cerimonia: vuole le risposte e fa le domande. Perché è
diventato la voce del no? È una forza che tende a distruggere ciò che
cerca di creare oppure è la voce della contraddizione umana che tesse e
disfa la tela, che dice no a ciò che crea? O, ancora, la sua voce è
provocazione? Insomma, ha una funzione distruttiva o provocatoria?
Questo stiamo indagando.
– Ci sono parole ricorrenti nel vostro lavoro: la cerimonia e il rituale tornano… – Uso la parola “cerimonia” in relazione alla drammaturgia di Dies Irae, ma anche del lavoro su Action, ovvero nella ricerca sull’arte come veicolo, per citare Grotowski, che è un'indagine sulla “oggettività del rituale”. La
tradizione è il nostro punto di partenza: al suo interno cerchiamo ciò
che ha vita e si muove, ciò che può servire come strumento per l'essere
umano. Il lavoro ha oggi due direzioni, una esterna, verso colui
che guarda, e una interna, diretta a coloro che fanno. Entrambe si
concretizzano in diversi modi nelle strutture specifiche che
appartengano o all’uno o all’altro ramo della nostra ricerca: l’arte
come veicolo o Project The Bridge. Partono dalla tradizione, e rappresentano sempre un lavoro sulla qualità del tempo: attraverso i canti esploriamo il loro possibile cambiare nel tempo. Da una parte c'è Project The Bridge,
che è un progetto in via di sviluppo e possiede un senso dello humour:
si prende gioco di noi e della natura della nostra ricerca essenziale. Dies Irae, come precedentemente One Breath Left,
ne fa parte. Mario Biagini, che collabora strettamente con me
dall’inizio del Workcenter, ha un ruolo fondamentale nella nascita e
nell’elaborazione di Project The Bridge, ed è anche il regista principale di Dies Irae, come lo era di One Breath Left.
Questo progetto, nato al Workcenter nel 1998, è stato creato per dare a
Mario un terreno attivo di lavoro e sviluppo sul piano della regia. Dall'altra parte della nostra ricerca ci sono Action e The Twin – an Action in creation, la ricerca sull’arte come veicolo. Di solito, in entrambi i rami della ricerca, lavoriamo con materiali molto antichi: in Action
con canti della tradizione afro-caraibica, in Dies Irae con il canto
gregoriano e con materiali tradizionali dell'est, anche se gran parte
del testo di Dies Irae è tratto dai diari di Franz Kafka. I canti che appaiono in Action e The Twin – che chiamiamo canti vibratori –
sono strumenti per un lavoro che l'essere umano può fare su se stesso,
strumenti che si affinano nell'esercizio quotidiano. Li ripetiamo quasi
ogni giorno, lavorando dentro e fuori dalle strutture performative
esistenti, e attraverso questo lavoro rigoroso possono offrire una via
di accesso alla vita interiore. Sono un artistic vehicle. Con
essi non vogliamo trasmettere una storia o un messaggio
all’osservatore, ma un’intenzione può essere percepita anche
dall’esterno: esploriamo l’impatto che il lavoro può operare su chi
agisce – e tale impatto può anche riverberarsi in modo sottile su chi
assiste. Ci interessa come il suono penetra ed entra nell'essere umano
in azione, perché può generare un risveglio e far germinare nuove
forze, che allora si rivelano.
– Cosa possono quindi continuare a dare, oggi, le origini? –
L'uso delle canzoni è legato al desiderio di tornare a qualcosa di
originario. Che cosa può dirci oggi, che cosa può rivelare e in che
modo può nutrire il lavoro quotidiano? Tutto dipende da come si usano,
gli strumenti, e in questo consisteva il lavoro che abbiamo fatto con
Grotowski negli anni. In ciascuno di noi ci sono zone originarie.
A volte in un attore riuscire a toccarle fa nascere luce e grazia. Si
percepisce allora che per quella persona la qualità del tempo
muta. Questo è essenziale, e avviene quando l'essere è presente
nell’azione. L'origine sta per me in questa presenza, che si rivela
nell'agire. Così può modificarsi anche la percezione del tempo in chi
guarda.
– È il desiderio di un contatto con l'essenza, quindi? –
I bambini sono in contatto con l’essenza – in loro vi è aderenza
immediata – gli adulti, invece, devono riscoprirla, ma ad un altro
livello, non si tratta di regredire. La nostra ricerca nasce con la
mancanza, con la sensazione che qualcosa sia incompleto. Si apre una
falda di desiderio dal contatto riscoperto con ciò che è talmente
intimo da essere innato, un desiderio che si manifesta prima di avere
un nome. L'"Io voglio…" non ha oggetto, e la consapevolezza di qualcosa
che manca è l'inizio della ricerca. Alcune sensazioni hanno un
potere che si manifesta prima dell'evoluzione del desiderio su un altro
piano. Lì inizia il nostro vero lavoro, quando quel desiderio intimo
diventa esigente: allo stadio anteriore la risposta non può raggiungere
la sfera dell’agire, non si riesce a trovare una strada che si
concretizzi in azione. Nella ricerca sui canti in Action, ad
esempio, questo desiderio, dapprima racchiuso in una cornice interna,
attraverso un lavoro in profondità ha generato azioni, reazioni, è teso
coscientemente alla trasformazione delle qualità di energia in onde.
Così, quando la scoperta arriva possiede il carattere di una
rivelazione dimenticata, dell'incontro con qualcosa di ignoto e assieme
di già conosciuto. Il desiderio senza nome voleva trovare la
propria casa perché esisteva nell'infanzia ma si era poi come
contratto, ed era andato perduto. Restituirgli la casa è accoglierlo,
ed è parte di ciò cui tendiamo nel nostro fare. Ecco: liberando energie pure si può lavorare sull'origine dell'essere umano, o semplicemente verso l’origine? Il cuore della nostra ricerca è rendere questo percepibile e dargli, all’interno di una struttura rigorosa, una risposta.
– Qual è il legame fra arte e rituale? –
Cerchiamo il potenziale intimo che può dischiudersi attraverso l'arte
del teatro, e alcuni elementi di tale ricerca possono esser percepiti
da qualcuno come legati all’ambito rituale. Descrivendo il nostro
lavoro, però, non amo usare il termine “rituale” perché esso è qualcosa
che si sviluppa nell'arco di centinaia di anni, e non si esaurisce né
si compie nell’arco di una vita. Ma il nostro legame con le tradizioni,
i canti ad esempio, ci serve per scoprire cosa essi abbiano di utile
allo sviluppo interiore, che è in fondo una strada personale. Project The Bridge,
contrariamente al lavoro svolto nell’arte come veicolo, prevede lo
spettatore. Ha quindi altri obiettivi, non rivolti solo all’attuante –
a colui che agisce – e segue altre leggi. Ci chiediamo anche come
raccontare una storia o come far entrare lo spettatore in un sogno, in
che modo vogliamo provocarlo. È un processo completamente diverso dal
lavoro sull’arte come veicolo. C'è anche il piacere di ridere di noi,
un filo di humour che percorre Dies Irae: ci prendiamo in giro
e quindi, in un certo senso, ci sveliamo. L'immagine può essere quella
di un corvo appollaiato su un ramo che commenta ciò che vede dall'alto,
ridendo. In Dies Irae si parla di noi, e nonostante questo
umorismo quasi grottesco c'è anche, nascosto, qualcosa che riguarda il
cuore del nostro lavoro. La situazione di pericolo fra vita e morte,
che è uno dei temi di Dies Irae sulla quale dirigiamo uno
sguardo venato di ironia, crea circostanze in cui qualcosa di quel
percorso interiore si presenta e può essere percepito. Sa che qualcuno dice che qui al Workcenter siamo una setta? Allora, ecco, in Dies Irae
glielo mostriamo: è un'esplorazione del confine fra la vita e la morte,
sì, ma è anche la storia di una sorta di strana setta teatrale
fondamentalista. E alla fine, invece di avere una rivelazione, la
protagonista cosa fa? Muore. Non svela nulla.
– Grotowski
sottolineava quanto l'espressione "in generale" fosse una formula
nemica dell'arte, e non solo dell'arte… Qual è secondo lei la capacità
di influenza di un lavoro così lontano dal commercio con il mondo? –
Grotowski lo diceva spesso, e credo che qualsiasi livello alto di
teatro sia un preciso processo di azioni dove tutto ha una direzione,
uno sviluppo e una risoluzione. Più la linea è esatta più l'attore può
percorrere la sua strada fino in fondo. Perché il cuore del teatro è
l'individuo, che si interroga su che cosa voglia compiere, fin dove sia
disposto ad arrivare, che cosa cerchi. Allora, più la volontà che guida
l'attore è specifica, meno ciò che è fatto "in generale" è ammesso, in
qualsiasi ambito. L'attore, se vive il suo mestiere con consapevolezza,
può e deve sapere che cosa fa. Una particolarità del nostro lavoro
dipende proprio dalla volontà di andar contro ciò che è indistinto, che
trascina con sé tutto ciò che tocca in una fusione dannosa, e che
possiamo riassumere nella formula "in generale". Grotowski,
isolandosi, ha scelto di consacrarsi ad altro, e ha dedicato il suo
tempo, alcuni anni, ad insegnare. Così è nato questo luogo dove ora
siamo, che è stato sempre un luogo di ricerca pura. Non conosco altri
registi disposti a una scelta così radicale e unica. Ma non voleva
affermare qualcosa, tanto meno dar giudizi o condannare altre vie:
semplicemente, diceva che per lui questa era la via migliore. Senza giudizio – non è il nostro ruolo, d'altronde. Molte
persone, negli anni, hanno cercato di stabilire un contatto
professionale con Grotowski. A chi veniva da noi a studiare diceva
soltanto cosa fare per ottenere ciò che la persona voleva o poteva
raggiungere qui. Ho passato anni studiando e lavorando, creando
strutture individuali e di squadra, facendo esercizi e vivendo fra
Pontedera e il luogo dove lavoriamo, quasi senza allontanarmene mai. Un
giorno Grotowski mi disse: "Sai, Thomas, io vedo quasi soltanto le
persone del Workcenter perché sono malato. Ma, se non lo fossi, avrei
molti contatti". Il suo isolamento non derivava quindi da una
negazione, ma da una necessità: cercare ciò che nutre l'essere nel
profondo. È vero che ogni scelta è anche un giudizio, e contiene
l'idea: "Questo per me ha valore". Ammetterlo è fondamentale perché
permette una sana e semplice indipendenza. Non posso sapere che cosa
nutra gli altri ma so cosa nutre me. Voler influenzare è inutile, è un
riflesso narcisistico, la ricerca dello specchio. Quando si supera
questo stadio si sente che il lavoro sta in piedi, sulle proprie gambe. Per
me è stato importante sapere che l'isolamento di Grotowski dipendeva da
un equilibrio di forze: per insegnarci ciò che voleva non poteva
dissipare le sue energie, che erano limitate perché era malato.
– La vostra apertura allo sguardo d'altri era nata con lui? –
Ogni tanto Grotowski mi dava un libro da leggere. Penso in particolare
ad uno che parlava dell'apprendimento e creava una similitudine con
l'albero. L'immagine ne mostrava la giovinezza, quando ha bisogno di
esser protetto, di un tutore o di qualcosa che lo difenda da eventuali
pericoli, come il passaggio di un animale che potrebbe spezzarlo. In
quel momento è utile garantirgli spazio e luce, ma crescendo non ne ha
più bisogno, anzi: la protezione condizionerebbe la sua crescita. Deve
trovare da solo luce, aria e spazio. Nel lavoro c'erano regole
severe, un ritmo intenso, cose da fare, perseguite da Grotowski con
radicalità. In seguito, fra le direzioni che si sarebbero potute
prendere c’era evidentemente anche l’entrata nel "general stream" della
creazione artistica, ma per me era chiaro che non era quello il punto
verso il quale il lavoro tendeva e tende. Oggi l'arte è business, e il
business arte. Ciò che facciamo qui va altrove, pur nelle necessità
pratiche e concrete della vita di tutti i giorni. Tutto è misto, ora:
per creare si devono cercare sovvenzioni, partner, pubblicità, stampa.
Un intero mercato accompagna l'atto di creazione e tutto è in vendita:
gli artisti diventano merce, etichette, firme e poco si salva. Il
problema non è più cosa si fa o come lo si fa ma quanto denaro rende.
Dominare il pubblico. Di questo non so nulla: non è il mio lavoro, il
commercio. Qui si cerca di andare lontano. Solo così qualcosa di unico
per un gruppo di artisti, qualcosa di cercato veramente, di perseguito
nel silenzio può apparire. Ma, se ha valore per me, non è detto lo
abbia per altri. Il "general stream" sposa richieste non scelte dal
singolo essere umano ma dal mercato. Il nostro lavoro, così lontano
dalla direzione di altri, così isolato e vedibile "in negativo" – ciò
che le dicevo prima della setta ne è un esempio – può diventare fragile
se vi penetra la tentazione del giudizio. Se dicessimo: "Noi facciamo
la cosa giusta e gli altri sbagliano" perderemmo forza. È delicato: la
realtà non è “in generale”, aspecifica, perché non c'è una cosa che
faccia indistintamente bene a tutti. Quindi, onestamente, non esiste un
possibile giudizio. Far proseliti, certi di essere nel bene: si sa
quanto ciò sia pericoloso. È vanità, è sempre negativo. Grotowski
parlava dell'albero, che ha le sue radici invisibili nel terreno e non
chiede di esser visto. È lì, si va a lui, dà ombra, non cerca nulla,
non chiede nulla. È lì, verso il cielo. Libero dal giudizio di ciò che
attorno a lui si muove.
– L'isolamento degli anni con Grotowski era una protezione, per lei? –
Lavorare in un isolamento quasi totale è stato importante, ma anche
naturale, ripensandoci. Ho passato anni fra la mia casa, il Workcenter
e le analisi con Grotowski su ciò che facevamo. Nel giorno libero
passeggiavo per Pontedera. Era una scelta forte ed estrema, ma la
vicinanza con Grotowski, così intelligente, che conosceva le pratiche
che ci trasmetteva con tanta profondità, un essere capace come pochi di
provocare e chiedere e ottenere... mamma mia! Il mio desiderio era
rendergli ciò che lui dava, ed era naturale volerlo. Malato com'era, ha
dedicato gli ultimi anni interamente a dare a noi qualcosa. Era una
lotta, e anche una gioia, qualcosa cresceva, giorno dopo giorno. Forse
per qualcuno sarebbe stato un inferno, e non unicamente a causa
dell'isolamento. È importante che Grotowski ci abbia fatto aprire le
porte per confrontarci, invitando persone a vedere il nostro lavoro. È
come la crescita dell'albero di cui ci parlava. Però ancora oggi è per
noi fondamentale mantenere l'indipendenza che ci ha dato, la direzione,
gli obiettivi. Restare lontani dalla velocità, dal rumore di fondo, da
tutto il sistema che condiziona sterilmente l'arte e che ci
allontanerebbe da ciò che cerchiamo, ci spinge a scavare a fondo e a
sviluppare una forza, una persistenza che permette a ciascuno di noi di
coltivare alcune qualità umane, con perseveranza.
– In che
modo perseguire una ricerca personalmente fondata può essere un gesto,
non un giudizio, ma un gesto di risposta a ciò che avviene, e come il
rigore della vostra ricerca può essere un valore? – Ha forse
valore per qualcuno che viene a vederci, questa è la sola risposta che
posso dare. Potrei usare la sua domanda per dire che c’è una virtù
oggettiva, evidente, riportando ad esempio alcune delle cose che ci
vengono dette. Credo invece sia sempre una questione individuale, non
di “general stream”. Se il mio lavoro tocca una persona e ha importanza
per lei, questo è un fatto. Una qualità esiste, certo, e anche uno
sforzo giornaliero per andare oltre. Ma è anche necessario accettare
che, se il nostro lavoro agisce in profondità per una persona che lo
vede dall’esterno, questo non deve modificare la mia posizione, pena
smarrirla. Siamo come salmoni che risalgono il fiume nuotando contro
corrente. Se qualcosa, anche dentro chi guarda il lavoro dall’esterno,
si muove, si alza, non devo focalizzarmi su questo, è indispensabile
non farlo e continuare ad andare avanti, nuotando contro corrente. Una
visione esterna attenta e competente può servire a vedere altro, ma non
è una motivazione; semmai risveglia l'urgenza della ricerca. E saperlo
mi aiuta a guidare il lavoro con chiarezza. C'è però un paradosso:
una parte di me si nutre dello sguardo degli altri e di ciò che loro
possono scoprire vedendoci, e da questo nutrimento trae utilità. Ma
dall'altra parte so che non è questo il motivo per il quale sono qui.
Il nostro nutrimento è nel lavoro, in ciò che l’essere di ciascuno qui
riesce a trarne.
– Seguo la sua immagine dell'albero:
adesso non ha più bisogno di protezione, non rischia di essere
spezzato. Accanto ci sono altri alberi, e alla loro ombra si possono
sedere i vostri ospiti. Avete accolto presenze estranee quando era
diventato forte e questa apertura genera incontri, parole, nuovi
luoghi. È la manifestazione di un disegno che offre fuori ciò che prima
è stato un lavoro interno? – È fondamentale per noi che questo
avvenga ora. Ma anche agli inizi del Workcenter, durante il nostro
periodo di isolamento, Grotowski sentì che avremmo dovuto aprire e ci
parlò di un'immagine contenuta nell’I Ching, nel Libro dei
Mutamenti: Se nel pozzo c'è acqua pura ma nessuno se ne abbevera,
diventerà cattiva: ciò che è puro deve essere bevuto. L'impatto è
fertile: dare ad altri porta vita. Ma, insisto, questo non è un fine. Se
sapessi che nessuno vedrà mai il nostro lavoro, ma fossi ancora
profondamente interessato al senso di ciò che facciamo, continuerei. La
realtà è diversa: sento l'attenzione che si riverbera sul nostro
lavoro, sul mio ruolo, e fa parte del quadro di oggi. Quali effetti
genera nella vita e nel pensiero di altre persone, non direttamente
coinvolte? Non lo so, ho bisogno di tempo per la ricerca e di non
dimenticare le priorità del lavoro affinché la sua essenza non si perda
– tenendo presente l’immagine del pozzo di acqua pura. Diciamo dei sì,
dei no, facciamo delle scelte – e per questo abbiamo ideato il progetto
triennale Tracing Roads Across1 – senza perdere di vista le
necessità fondamentali del lavoro, che sono legate all'agire
dell’individuo: il seme da cui può germogliare e crescere una vita
intima. Perdendo di vista questo seme non resta che una scatola vuota.
–
Come, partendo da questo seme, si può toccare l'idea del teatro: esiste
una influenza che altri possono captare e dalla quale nasce qualcosa di
nuovo? – Sì, ma non è il mio lavoro. E non deve diventarlo,
anche se parte di ciò che facciamo crea risonanze ed effetti, se
pensiamo alla fonte d'acqua da cui si può bere. Bisogna permetterlo. Ma
le influenze non sono programmabili, né controllabili. E non devono
esserlo, né io devo occuparmene.
– Ma queste energie sono ora in contatto… – Sì, lo sono: per creare le circostanze le influenze sono importanti. In Tracing Roads Across
ad esempio esistono molti livelli di contatto, non solo all'interno del
gruppo. Abbiamo accolto e accoglieremo persone, abbiamo viaggiato e
viaggeremo vedendo il lavoro d'altri, abbiamo mostrato e continueremo a
mostrare ciò che facciamo a più persone di quante ne accoglievamo
prima. Quindi sì, siamo aperti alle influenze, creiamo le circostanze
nelle quali i contatti possono accadere ed essere fertili. Ma questa
apertura non deve saturare o esaurire l'acqua pura. È un crinale
sottile: aprendo sconsideratamente verremmo spinti in altre direzioni.
E non aprendo affatto il pericolo sarebbe la sterilità.
– Torniamo alla differenza fra Action e Dies Irae: uno prevede spettatori e l'altro è una ricerca interna. Che influenza ha la presenza di pubblico nella creazione? – Project The Bridge, di cui One Breath Left con le sue varie versioni era la prima tappa e Dies Irae la seconda, ha una componente teatrale maggiore. Project The Bridge
per me è relativamente nuovo, dunque non so come diverrà e cosa
produrrà. Accettiamo come spettatori di Dies Irae un massimo di
centoventi persone. E per gli attori del gruppo questo è fecondo,
perché si preparano sapendo che ci saranno occhi e orecchie attorno. La
loro attivazione, e anche la loro tensione nel lavoro preparatorio è
forte, ed è necessaria allo sviluppo: provano e sperimentano con
necessità. Questa capacità di mobilitarsi in azione, necessaria anche
per procedere nel territorio dell’arte come veicolo, è uno degli
obiettivi che perseguiamo in Project The Bridge, base della crescita di ciascuno nel gruppo. L'influenza del pubblico in Project The Bridge può
essere positiva anche per altri motivi: mostrare il lavoro svolto crea
le circostanze per sviluppare libertà e indipendenza dallo sguardo
dello spettatore. È un circuito che mantiene il gioco libero. Quella
dello sguardo esterno è una questione interessante: durante il processo
di lavoro sull’arte come veicolo con Grotowski, pur non essendoci,
allora, alcun osservatore presente in sala, in realtà c’era sempre
qualcuno. Sei tu, sono i tuoi fantasmi, le tue proiezioni. Una presenza
che entra, non invitata, nella struttura; un essere invisibile che crea
un’ombra e si impadronisce della libertà necessaria alla linea d'azione
in un momento cruciale. Questo fantasma – che non è effettivamente
presente in sala ma nella tua immaginazione - limita drasticamente le
possibilità perché sembra saperne più di te. È come sentirsi osservato
da uno sguardo che blocca. È stato importante capire tale fenomeno di
ordine, diciamo, psicologico perché questa presenza può bloccare e far
perdere l’opportunità. Uno sguardo esterno, reale o immaginario, può
limitare le capacità dell'attore, e comunque le influenza. Sapere dove
il corso del fiume viene ostruito e vincere questa resistenza giorno
dopo giorno, rendersi indipendenti dall'occhio legandosi invece a un
diverso tipo di sguardo – come era quello di Grotowski, esigente e
colmo di attesa, ma tendente verso una porta aperta – è cruciale, per
non fare l’errore di prendere facili scorciatoie. Lo sguardo del
teacher libera, anche se isola. Ma abbiamo scoperto che lo spettatore
esiste comunque. Liberarsene è ciò che il pubblico ci permette
guardandoci. Ecco perché a volte è necessaria una guida il cui sguardo
sia libero e liberi a sua volta: aiuta a raggiungere l'indipendenza,
una libertà.
– Nel montaggio dei testi ricorrono cose che
sono presenti da anni nel vostro lavoro, è un discorso che si riannoda
a cose pregresse… Vorrei parlasse del legame fra voce e azione nella
vostra ricerca. – La voce è per noi uno strumento fondamentale.
Quando ho cominciato a lavorare con Grotowski avevo ventitré anni e
all’inizio non funzionava nulla, ero un disastro. Poi, lui ha lavorato
molto su di me: mi ha insegnato quanto la melodia, il ritmo e la
pronuncia debbano essere precisi, perché il modo in cui la parola viene
pronunciata nel canto è parte del lavoro. La tecnica che usiamo –
se così si può dire – ha a che vedere con il modo in cui il suono è
emesso e a sua volta penetra il corpo. Pensi a un violoncello: bisogna
esplorare il rapporto fra la corda e la cassa. Non si tratta solo, nel
caso del lavoro sul canto, di un processo della voce, ma anche di
un’azione, che convoca forze diverse. Come il violoncello, appunto: ci
sono le corde, che vibrano, e la cassa, che crea il suono. La voce è
corda e tutto il corpo è cassa di risonanza. Dipende da come si
accoglie la vibrazione, e da come la si offre: queste sono azioni, e
qui il lavoro è rigoroso. Non è melodia, è di più. Grotowski diceva:
"Toccami la spalla con la voce. Fai risuonare qui. Cerca il modo di far
arrivare il suono dentro di te, qui". In questo modo anche le
gambe contano, e i piedi, e la colonna vertebrale… cambia tutto. Non
siamo pezzi di carne ma casse di risonanza che chiedono di risuonare.
Però siamo contratti, bloccati; bisogna cercarla nel corpo, la
risonanza. Se lei ora espira sente che sotto l'ombelico, nella zona che i giapponesi chiamano hara,
c’è una contrazione. È sempre là, perché si vorrebbe esser più magri,
perché la postura occidentale induce a farlo, perché vi si annidano
anni di abitudine. E l'aria non entra. Se lo si libera, il corpo
diventa morbido, si addolcisce e si apre. Far entrare l'aria è
accogliere: viviamo con un corpo compresso, con molte zone di tensione
simultanee. Se l'aria entra il corpo risuona e allora può accogliere un
processo profondo, non solo fisico. Non si tratta semplicemente di respirare ma di far entrare l'aria – come se si accettasse di essere vivi. Lo hara giapponese è un cuore di energia e chiede di essere sgombro. Vincendo
la resistenza, lasciandosi andare, si può scoprire, anche solo per un
momento, una estensione interiore: sciogliere questo nodo è come
risvegliarsi nella pienezza, in una sorta di origine. Ecco che
torna il tema dell’origine con il quale abbiamo iniziato oggi. Adesso
stiamo parlando di un centro vitale trattenuto, un motore capace che
teniamo compresso, nel quale ha sede la vitalità, dormiente, che
dobbiamo risvegliare. Succedono cose strane quando la si risveglia e
sgorga. Dal corpo alla risonanza alla vita interiore si crea un
processo, un flusso energetico, una corrente leggera ma efficace che
può risalire verso fonti più e più sottili; come se arrivasse a una
sorta di nuovo territorio nell’esperienza, a una sorgente dalla quale
può giungere un nutrimento, e suoni che non si conoscevano affiorano. Accettare questo processo genera fuoco e nascita, e qualcosa sgorga. Quel qualcosa è la possibilità di cui parlava Grotowski.
da una conversazione con Thomas Richards, a Pontedera, il 12 ottobre 2003 |
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