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Roberto Capucci   PDF  Stampa  E-mail 

Scultore di stoffa, creatore di forme, pittore di sete, fa ergere il taffettà, innalza il raso, disegna fiumi di velluti e nelle sue mani il tessuto si anima. Nel suo atelier di via Gregoriana gli abiti - esposti nei musei di tutto il mondo, invitati da Jean Clair alla Biennale di Venezia, poi all'expo di Lisbona, a Shoenbrunn di Vienna e al Kunsthistorisches Museum - sono forme. Ha lasciato la Camera della Moda più di trenta anni fa inventando un nuovo modo di essere stilista, lontano dalle regole dell'industria. Oggi, con la libertà che ha saputo conquistare, è un creatore. Di opere e sculture, che sono racconti e movimenti. – La sua posizione così singolare nel panorama della moda italiana lei la ha voluta fortemente fin dall'inizio. Come è riuscito a imporla? – Ho ottenuto quello che ho voluto dalla vita. Ho insistito, ho combattuto tanto, ho creduto. E non mi sono lasciato influenzare da imprese sbagliate, da mercanti o da illusioni. Volevo lavorare con i tessuti, e così ho legato il mio lavoro ai miei studi, alle mie passioni, alla mia attitudine, che era quella di creare. Un tessuto è come creta, come marmo, lo si può scolpire o dipingere. Ho dovuto vincere molte battaglie, prima della guerra, per riuscirci. Inizialmente con le giornaliste di moda, per le quali ero una scheggia esterna all'ambiente e non interessavo loro. Quando uscì la linea quadrata, nel '57-'58, ottenni in America l'Oscar della moda, per la linea più creativa e innovativa che esistesse. In Italia, invece, mi diedero quasi il foglio di via e la freddezza con la quale mi accolsero mi spinse a lavorare sempre più all'estero. Ma questo premio, questa corona, fu per me una cosa straordinaria. Sono riuscito a fare delle mie creazioni quello che desideravo: creare un abitacolo per la donna nel quale lei potesse entrare come una dea. Ne ho conosciuta una così: Silvana Mangano. Quando ero con lei, guardandola, potevo immaginare qualsiasi cosa. Era talmente misteriosa, lunare, bella, e mi facevo le domande più assurde. Lei provava gli abiti e io mi chiedevo come facesse l'amore, se le piacesse farlo, come fosse con suo marito, con i figli, come avesse fatto a diventare quello che è stata, a crearsi così. È per me l'emblema della donna dea. – Lei ha avuto un maestro? – No, ma ho avuto un incontro decisivo, una giornalista che scopriva artigiani strani per lanciarli. Scriveva in un piccolo giornale che mi pare si chiamasse "Il giornale dell'artigianato". Aveva quasi 70 anni, e io solo 19, ma tanti disegni nati guardando mia madre, che volevo fosse elegante. Lei li vide e mi esortò ad aprire una mia sartoria. Ero orfano di padre, minorenne, senza beni miei. In più, mia madre non voleva. Fu lei ad aiutarmi. In quel periodo il marchese Giorgini di Firenze, mecenate e uomo straordinario, invitava le sartorie italiane a creare ciascuna uno stile e a smettere di copiare la Francia, promettendo loro in cambio compratori e stampa di tutto il mondo. Lei partì con i miei disegni per Firenze e Giorgini, con i suoi capelli bianchi, venne a Roma per incontrarmi. Ero un ragazzino, non conoscevo nessuno e nessuno mi conosceva. Mi propose di vestire sua moglie e le sue figlie per la serata di chiusura. "E prepari cinque tableaux di cinque vestiti. Durante la serata li farò illuminare nel parco e la presenterò come giovane creatore enfant prodige e nuovo talento", mi disse alla fine. Ero emozionatissimo; salutandolo gli chiesi cosa dovevo fare. "È libero: faccia quello che vuole". Oggi sarebbe impensabile. Voleva il silenzio, affinché fosse una sorpresa. Invece, nei corridoi dell'Excelsior, una mannequin, Luciana Angiolino, lo disse a Schubert, che non amò questo mistero. Insomma, mi proibirono la sfilata. Giorgini mi disse di andare comunque al ricevimento, qualcosa sarebbe successa. Aveva ragione: alla fine la serata fu per me: fotografi, giornalisti, curiosi, non si parlava d'altro. Oriana Fallaci mi fece il primo servizio e il giorno dopo presentammo i vestiti alla stampa. Avevo cominciato come meglio non si poteva. – Poi c'è l'avventura delle sculture... – Le prime mi sono state commissionate da Jean Clair quando era direttore della Biennale di Venezia. Mi chiese di prepararne dodici per il centenario della Biennale. Mi invitò al padiglione come scultore di tessuti. Poi ne preparai un'altra per l'expo di Lisbona di fine secolo, che si chiamava: "Gli oceani, mari del futuro". Volli fare un vestito di mare, che ricordasse gli oceani. Cinque mesi di lavorazione, cinque ragazze, milleduecento pezzetti di plissé cucito a mano per far le sfumature. È stato un lavoro incredibile, mi creda. Ma non bado al tempo, né ai costi: devono essere "pezzi" meravigliosi come dico io, e perfetti. Che piacciano o no è un altro problema. Se arrivano a quattro persone sono contento, se arrivano a mille meno, perché voglio piacere a pochi, e farmi capire da pochi. Come accade ai grandi film d'autore. I capolavori non sono di massa. Non farò capolavori, ma voglio siano accolti come racconti della mia vita. Ricorda quell'abito che si chiamava le nove gonne? Piaceva molto a Esther Williams, che lo indossava tanti anni fa… era il 1956. Sa come è nato? Ero seduto davanti a uno stagno e facevo cadere lentamente dei sassi. Guardavo i cerchi perfetti sull'acqua e mi chiedevo come rendere questo con il tessuto. Così è nato l'abito. Capisce? Ciò che vedo è raccontato dal lavoro: la musica, le passeggiate, la solitudine che è meravigliosa, le persone intelligenti che capita di incontrare a volte, le opere d'arte, i musei, le belle chiese di Roma dove torno continuamente. Tutto questo è parte della vita, come la natura, che racchiude la più pura bellezza dando voglia di creare. La musica ha sempre fatto nascere in me idee di forme. Quando andavo all'Auditorium di Santa Cecilia avevo elaborato un trucco: se facevo un taglietto o due sul biglietto d'ingresso sapevo cosa avevo pensato. Poi tornavo a casa e iniziavo a disegnare, schizzavo l'idea. Bisogna cogliere subito l'emozione, e darle una forma. Questo vale per tutti coloro che creano. – Lo si impara, a dar forma alle emozioni, o è un dono, secondo lei? – Sì, la ricettività la si coltiva. La natura, che l'uomo non ha più voglia di guardare, contiene tutto. È la fonte d'arte più potente. Le pietre, la terra, gli alberi, i fiori, la pioggia. Davanti alla natura ho bisogno di disegnare e tirar fuori le emozioni che suscita. Io ho lavorato anche d'agosto, quando la città si vuotava facevo lo studio dei colori: quella tonalità d'arancio col pervinca, o con un rosa che è un incontro strano... facevo tirelle chilometriche e non sa che piacere ne avessi. Non era un sacrificio, era una parte d'amore. Adesso dicono che abbia dato poco all'amicizia e all'amore, che tutto sia andato al mio lavoro. Ma è parte della vita, e mi permette di sognare ad occhi aperti. E poi, in 52 anni, non mi ha tradito, e non è poco. Dico molti no e pochi sì, perché mi piace selezionare, e nonostante questo siamo impegnati fino al 2005. – Che rapporto ha con il tempo? – Non mi interessa: riesco a fare tutto con puntualità. Un momento: mi piace stare su questa terra, intendiamoci!, e quel tempo vola via. I miei nipoti crescono, diventano belli e grandi d'improvviso. Vola, sì, vola. Con quello mi arrabbio. Ma l'altro tempo, quello che decide mostre o sfilate, non m'interessa: devo sentirmi libero. Per questo più di trenta anni fa diedi le dimissioni dalla Camera della Moda. Non è snobismo: stimo i miei colleghi, ma non stavo bene nel mondo della moda: la data, la collezione, le sfilate a ore fissate. No, non mi interessa davvero. Se sono pronto bene, altrimenti no. L'ultima sfilata la ho fatta alla Schauspielhaus di Berlino, il teatro di corte che adesso è una delle sette sedi dell'orchestra sinfonica. L'orchestra suonava mentre uscivano gli abiti, e il direttore accordava la musica alle uscite. È stata una delle più belle emozioni… – Il contrario di ciò che faceva lei a Santa Cecilia con i suoi biglietti: adesso era il direttore che sceglieva la musica sui suoi abiti… –Sì, è vero. Prima Brahms, poi Schubert... per il finale c'era un abito da sposa di cinque colori, ispirato a un affresco del Tiepolo, che adesso esponiamo nelle mostre: pastello verdi gialli aranci albicocca; centosettanta metri di taffetà e si vedono tutte le luci. Per l'uscita finale il direttore aveva scelto l'Acqua di Haendel. L'occhio di bue illuminava l'abito e la bellissima mannequin, che si è commossa in passerella: applausi a fiume, tutto il rimmel sul vestito. Questo vale più di qualsiasi Camera della Moda, per me. Era mastodontica: 240 vestiti, più 120 abiti da sera lunghi. C'è voluto tanto tempo per prepararla. Poi sa, faccio tingere i tessuti solo in Francia, voglio che l'ordito sia di un colore e la trama di un altro perché mi piacciono i cangianti nel movimento. Voglio taffetà quadrupli che suonino come carta. E per questo ci vuol tempo, e calma. – Come è cambiata la creatività negli ultimi cinquanta anni? – È difficile rispondere, perché la creatività non è un mercato. Nella moda c'è stata l'invasione del prêt-à-porter, necessaria perché bisogna vestire tutti. Ma ha portato con sé l'idea del "compra e butta", una idea che blocca la creazione: non si cerca più il nuovo nel passato, ed è un errore, perché il passato è la nostra carne, la nostra terra, la nostra patria; non va dimenticato. È una lezione di civiltà. Il presente è fatto di angosce e dubbi, e il futuro è lo spazio della fantasia, dell'immaginario, del sogno. Perdere uno di questi punti è uno sbaglio. Pensando solo al presente si è nell'ignoranza, solo al futuro nell'incoscienza, solo al passato nella nostalgia. Qualunque cosa si faccia, bisogna averli a mente tutti e tre. – Cosa pensa dell'Italia in questo momento? – Siamo ciechi su un battello guidato da un governo disastroso. Il paese è in un disordine terribile e non si sa dove vada. Sotto elezioni questi signori si cambiano, si mettono la cravatta, si pettinano e si fanno fare brutte fotografie. Dai loro cartelloni sorridono e non mantengono le promesse. Basta! Gli unici che fanno qualcosa in Italia sono i privati. Lavorano e cercano individui, non strutture. Maria Crespi, la presidentessa del Fai, ha invitato la mia mostra Varese, nella ricchissima raccolta di opere d'arte contemporanea del collezionista Giuseppe Panza di Biumo. Questa signora, ottantenne, ha le sue tenute solo biologiche e ha fatto tutto ciò che ha promesso. Salva i posti che sceglie in modo perfetto. Li restaura e li fa poi visitare. All'interno ci sono ristoranti dove si mangia come da George, giardini senza una foglia per terra. Il Fai si autofinanzia con i pranzi e con i soci, e ha anche dei lasciti. Hanno dato un pranzo in mio onore che costava più di un milione a persona, una cifra ben alta. Bene: i partecipanti erano seicento, capisce che organizzazione? Così il Fai acquista nuove cose. Questo è il genio privato dell'Italia. Il governo non sa fare nulla, non ne è nemmeno al corrente. – La grande risorsa dell'Italia è ancora l'arte, secondo lei? – Abbiamo il talento di distruggere tutto. Quanti, nell'ultimo periodo di Fellini, dicevano che era diventato ripetitivo e noioso? Lo stesso è successo a Visconti, ho sentito dire che fosse troppo "viscontiano", ma è il colmo! Pasolini, esaltato all'inizio, era diventato troppo difficile, e il pubblico si lamentava che i suoi attori parlassero in dialetto. Per non dire di Carmelo Bene: hanno cercato in tutti i modi di renderlo un fantoccio e ogni volta che saliva in scena era una lezione. Ma per quanti? Come se un artista non avesse un suo stile. È già un miracolo, averlo, e va difeso. I francesi sanno esaltare un personaggio: basta loro un piccolo nome per innalzare una cattedrale. Parliamoci chiaro: Françoise Sagan, suvvia, non merita l'olimpo della scrittura. Brigitte Bardot, è ancora BB perché sono bravi, ma ci sono state donne più belle: Alida Valli, Rita Hayworth, insomma! Ma se da loro muore un personaggio gli fanno la tomba e i funerali di stato. Noi sappiamo solo storcere il naso. Quando morì Francesca Bertini aveva una croce di legno al camposanto dei poveri. Poi, sì dopo, ci fu una petizione del Comune. Ma era Francesca Bertini, un simbolo dell'Italia. I grandi talenti, in tutti i campi, sono italiani. Abbiamo riempito i musei di tutto il mondo. Se togliamo la parte italiana cosa resta? L'antichità, l'arte egiziana, cinese? Nel cinema, nell'arte, nella letteratura abbiamo patrimoni unici. A Roma basta uscire, alzare gli occhi, e si vede un pennacchio del Borromini, una chiesa, un affresco, facciate a perdifiato, musiche. Ovunque, dalla Sicilia all'alta Italia. E questo stimola la creazione, l'immaginazione. Invece, noi esportiamo Alberto Sordi, l'immagine di una Italia che si guarda l'ombelico e si arrangia. Una immagine deleterea che non ci giova certo all'estero… – Lei ha conosciuto grandi donne nella sua vita… – Ho vestito donne importanti, e ho imparato molto da loro. La prima in assoluto fu Isa Miranda, poi venne la principessa Pallavicini, poi Doris Durante, Elisa Regani, Franca Rame e poi Raina Kabaiwanska, la grande cantante lirica: alta, magra come una mannequin, bella, importante, con una voce e una presenza carismatica. La mia grande passione è sempre Silvana Mangano, così inarrivabile. Un incontro più recente e molto bello è stato quello con Rita Levi Montalcini. Ha 94 anni, idee chiare e un pizzico di incantevole civetteria. Sa cosa vuole: abiti accollatissimi, maniche lunghe, vita stretta e colori scuri. E io la seguo. È carattere, questo. Tutto nacque dalla coda che le feci nell'abito per la premiazione del Nobel. Quando vide la coda alla prova mi disse "Capucci, la coda?". Le dissi che era l'unica donna a prendere il Nobel ed era quindi la regina, doveva essere regale. Mi disse: "La faccia, la porterò". E non è certo facile portarla. Poi è stata fotografata ovunque per la premiazione, e la coda colpì molto… Da allora mi è fedele. Stesso carattere grintoso lo ha Franca Valeri. Siamo diventati molto amici negli anni. E poi tante altre, ma mi fermo qui.

Da una conversazione con Roberto Capucci nel suo atelier di Roma, il 15 luglio 2003


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