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Marina Abramovic è un'artista che ha elevato il suo corpo al rango di opera d'arte.
Nelle sue performance esplora il rapporto fra il corpo e l'energia
utilizzando anche elementi biografici come metafore sociali del suo
lavoro. In questo mese di aprile 2003 prepara con i suoi ventiquattro
studenti dell'Accademia di Braunschweig As soon as possible,
ventiquattro performance realizzate da ciascuno di loro, che saranno
presentate simultaneamente, dal 6 all'8 giugno, al Pac di Milano. Si
vedono cinque giorni al mese, dalle nove a mezzanotte, discutendo
insieme ogni lavoro.
- L'esplorazione dei limiti ha sempre avuto una funzione
centrale, nella sua ricerca. Cosa la ha spinta ad indagare questa
dimensione?
- Ho iniziato come pittrice e, quando ho fatto la mia prima
performance, ho scoperto due cose: l'energia che si produceva
nell'azione, e il fatto che lì tempo è parte del lavoro. Nell'opera che
non si crea davanti al pubblico - una scultura, una fotografia, un
quadro - la comunicazione è morta, perché cattura un momento diverso da
quello della visione. La scoperta del qui ed ora è stata talmente
straordinaria che da quel momento non ho voluto fare altro. Nella
performance si lavora sul corpo, e pochi sanno quante cose, che la
nostra cultura occidentale non conosce, si possano e si debbano
imparare sul proprio stato fisico e mentale. Noi aspettiamo sempre
qualcosa di inatteso, di esterno che sta per accaderci. Una tragedia,
un incidente, un evento. Nella performance si mette in scena la propria
tragedia e si attraversa un'esperienza di fronte al pubblico, per
liberarsi dal dolore o dalla paura. È un laboratorio nel quale la
ricerca è possibile, uno strumento potente per capire se stessi. Poi il
pubblico può, osservando l'artista, crearsi uno specchio nel quale
trovare le risposte che sta cercando individualmente.
- Questo conduce ad un'altra forma di comunicazione?
- Si, assolutamente. Quando si ha a che fare con un oggetto il rapporto
è diverso, e la differenza risiede nel fatto che il quadro, o un'altra
opera compiuta e chiusa, ha un'energia statica, mentre la performance è
viva. Si è molto più colpiti di quanto non lo si sia guardando un'opera
nello spazio.
- Quali sono stati i momenti fondamentali del suo percorso artistico?
- Il corpo è l'oggetto e il soggetto della mia ricerca, e lo uso come
uno strumento per far arrivare un messaggio. Naturalmente ci sono state
alcune performances chiave, nelle quali credo di essere andata più
lontano che in altre. Penso a Rythm 0, a Napoli nel 1974 e, nello stesso anno, a Rythm 5 a Belgrado. Ma anche a Imponderabilia a Bologna, nel 1977, o a Expansion in Space, che presentammo alla VI Documenta di Kassel. La quinta tappa è stata The Great Wall Walk of China, e poi sicuramente Balkan Baroque, alla Biennale di Venezia del 1997. Infine l'ultima, che ho appena fatto a New York, The House with Ocean View.
- Perché ha citato proprio queste performance?
- Ciascuna pone nuove domande, e queste sono diventate le tappe della mia ricerca.
Nella prima ero un oggetto per sei ore, in balìa del pubblico, che
poteva usare diversi oggetti posati su un tavolo. C'erano coltelli,
cinte, catene e anche una pistola e un proiettile. Ero completamente
passiva: se avessero voluto, avrebbero potuto uccidermi. Vulnerabilità
e pericolo erano i due estremi, affidati solo al pubblico. In Rhythm 5
sono andata oltre: una stella a cinque punte, che era la metafora del
comunismo, bruciava, ed io ero sdraiata, immobile; senza accorgermene
ho perso conoscenza e ho rischiato di prendere fuoco. Un medico mi ha
spostata e fatta rinvenire. Sperimentavo i limiti del corpo, fino a
dove li si potesse spingere. In Imponderabilia, con Ulay,
eravamo nudi all'entrata di un museo; chi voleva entrare doveva passare
attraverso i nostri corpi. Volevamo rappresentare l'artista come soglia
attraverso cui avvicinarsi alle opere. Ci interruppe la polizia a metà
della performance, dopo un'ora e mezzo. Anche in quel caso l'artista
era oggetto ma il corpo, il nostro, era metafora della soglia, di un
passaggio.
- La sua attenzione per lo scambio di energia fra il corpo dell'artista e quello del pubblico è nata subito dopo?
- Sì, con Expansion in Space, direi. Lì, per la prima
volta, avevamo un pubblico di 1500 persone, e ho capito quanto
l'energia di chi guarda, se è una folla, possa modificare i limiti del
corpo, spingendoli oltre ciò che una situazione normale permetterebbe. The Great Wall Walk
è stata uno studio dell'energia individuale: Ulay ed io abbiamo
costeggiato, partendo ciascuno da un estremo, l'intera muraglia cinese,
e ci siamo incontrati nel mezzo, dopo aver percorso ciascuno 2500
chilometri. Balkan Baroque è nato invece dalla vergogna
profonda che la guerra in Yugolsavia ha generato in me: ero seduta in
mezzo a una montagna di ossa d'animali, coperte di brandelli di carne.
Per molte ore al giorno le pulivo e toglievo loro le tracce di sangue.
In quest'ultimo lavoro, The House with the Ocean View, non
faccio assolutamente nulla per dodici giorni: non scrivo, non parlo,
non mangio; bevo e guardo il pubblico, e fra noi non ci sono oggetti né
azioni. È un puro scambio di energia, osservo come può cambiare quella
del pubblico se io purifico la mia.
- Che direzione ha preso la sua ricerca negli ultimi anni?
- I miei primi lavori erano molto fisici, e nel tempo sono diventati sempre più mentali.
Mi interessa il lavoro che ha una durata, e le radici di questa ricerca
risalgono agli anni '70. Molti lo dimenticano perché oggi tutto è
veloce, e anche l'arte corre inseguendo il mondo. Nessuno ha tempo per
nulla, e noi - in quanto artisti - dobbiamo cogliere la mancanza di
concentrazione e pensare in che modo produrre opere che abbiano un
tempo diverso, per portare il pubblico in questo tempo altro. Possiamo
farlo, questo processo di lunga durata che l'opera reclama, non solo in
quanto artisti ma anche come osservatori. Direi che è questa la
direzione del mio lavoro, oggi. Ecco perché The House with Ocean View dura dodici giorni .
- Qual è secondo lei il rapporto fra l'arte e la bellezza?
- È una antica certezza, che l'arte debba essere bella. Ci accompagna dall'infanzia.
Ma questa affermazione è pericolosa. La bellezza non è abbastanza, può
diventare un guscio vuoto, deserto, e togliere senso all'opera. Credo
che l'artista debba essere un disturbatore e noi dobbiamo interrogare
la bellezza. Piero Manzoni ha detto: "Non mi interessa che la mia arte
sia bella o brutta. Deve essere vera". È così. Nella mia performance Art must be beautiful
(1977) interrogavo questo credo nella bellezza, e lo facevo
distruggendo il mio volto con una spazzola e un pettine di metallo. Un
modo per dire, attraverso la decomposizione dell'immagine, che la
bellezza non è tutto.
- Qual è la funzione dell'artista nella società, secondo lei? - Joseph Beuys ha sempre detto che l'arte può cambiare la vita. Non
sono così ottimista, non lo credo, ma so che è necessario agire in
questa direzione. L'artista è l'ossigeno della società, e traccia una
strada. Se la sua opera è importante è perché riesce a cambiare il modo
in cui la società pensa in quel momento storico. L'artista è colui che
sa porre domande, e se con la propria arte si riescono a cambiare anche
poche persone allora si è riusciti a dare un contributo profondo.
- L'arte è investita da un senso di urgenza e di responsabilità, in questo grave momento storico? - Parlare di politica è pericoloso per un artista, il suo materiale
è ciò che ha e ciò che prova dentro di sé. Comunque, non deve reagire
alle notizie quotidiane come un giornale. Se lo fa, le notizie
diventano subito vecchie e lui è fuori. L'immediatezza non serve. Deve
invece fare un lavoro trascendentale, che contenga un messaggio che
possa essere usato in ogni momento in ogni luogo. Quando ho fatto Balkan Baroque
non pensavo solo alla Yugoslavia, era una immagine valida per ogni
guerra e ogni paese. Vale anche per l'Iraq. L'artista deve rispondere
alla distruzione o alla guerra in modo teorico, e non deve avere
opinioni. Semmai una visione. Dobbiamo sapere qual è la nostra funzione
e lavorare con metafore, con le immagini e con i significati. A lungo
termine. Lentamente.
Da una conversazione con Marina Abramovic, aprile 2003 |
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