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Teatro è corpo. Parola di Josef Nadj
Avignone. Ogni volta che Josef Nadj presenta un nuovo spettacolo amplia
la sua sfera creativa. Ad Avignone, in una edizione del festival ricca
di nuove proposte, ha portato Le temps du repli che ha affascinato
critica e pubblico. Un pubblico che lo conosceva già da venti anni, da
quando nel 1987 esordì a Parigi con Le Canard Pekinois, lo spettacolo ha dato il nome alla sua compagnia.
Ma chi è Josef Nadj, questo regista che sembra avere in sé l'energia dei gitani e l'inquietudine dei senza patria?
È nato a Kanjiza, in Vojvodina, una cittadina ai confini fra Serbia,
Yugoslavia e Ungheria, ha alle spalle una storia di tutto rispetto.
Dopo aver studiato Belle Arti a Budapest, è andato a Parigi nel 1980
per fare teatro. E lì, fra i tavolini dei caffè di Saint-Germain e i
foyer dei teatri di avanguardia, ha incontrato Etienne Decroux, storico
fondatore del mimo, e Marcel Marceau, che gli hanno ispirato una nuova
maniera di popolare la scena in cui si uniscono, in una combinazione
suggestiva e unica, teatro, arti marziali, danza, animati dal magico
universo del circo.
Fin dall'inizio i suoi spettacoli si fanno notare, ma la sua posizione
diventa solida da quando, nel 1995, dirige il Centro Coreografico
Nazionale di Orléans. Opere impregnate di cultura mitteleuropea, come Sept peau de Rhinocéros (Sette pelli del rinoceronte), Les Echelles d'OrphéeAnatomie du Fauve
(Anatomia della Fiera), che evocano figure dai colori autunnali,
memorie di pagine amate, visioni notturne, hanno girato tutto il mondo
in tournée. Una produzione molto intensa, con dodici spettacoli in
dieci anni, di cui uno solo arrivato in Italia nel 2000, Les Veilleurs,
ospite del Roma Europa Festival. Ma ora il nostro paese vuole
recuperare il tempo perduto: Josef Nadj presenterà alla Biennale di
Venezia, dal 28 al 30 settembre, Petit psaume du matin (Piccolo
salmo del mattino), pensato per la danzatrice di Pina Bausch, Dominique
Mercy. Un'occasione da non perdere per ammirare l'opera di un uomo che
ha trasformato il teatro in una fusione calibrata tra la mimica di
Marcel Marceau e le prodezze del circo, con forti richiami all'estetica
di Tadeusz Kantor e all'universo onirico di François Tanguy.
Le sue rappresentazioni rievocano le magiche atmosfere sospese dei
capolavori del pittore surrealista belga René Magritte (1898-1967) a
cui Nadj sembra aver preso in prestito alcune immagini. Le donne che
fluttuano a mezz'aria, i bastoni, le sedie di legno, i tavolini
quadrati, la scacchiera: un gioco di rimandi che investe lo stesso
Nadj; vestito grigio, bombetta in testa, sembra uscire lui stesso da un
quadro di Magritte.
Ma torniamo ad Avignone, dove Josef Nadj ha sorpreso tutti i suoi
fedeli inserendo per la prima volta la parola in mezzo a questo turbine
di immagini, oggetti simbolici e acrobatiche visioni. Lo abbiamo
incontrato per farci raccontare come nascono i suoi spettacoli. - Come mai dopo quindici anni di spettacoli visionari e muti questa volta ha voluto inserire la parola?
Le parole sono un'informazione supplementare. Il timbro delle voci, i
tempi dei silenzi, i gesti dell'ascolto: tutto questo tesse l'acustica
interiore. Quello che si sente e non si dice è l'essenza profonda
dell'individuo. In ogni spettacolo prendono forma dei fantasmi. Tutto
ciò che ho visto, amato, letto, tutto ciò che ho creduto di perdere e
che manca diventa una forma in scena.
Come Beckett, non faccio che piantare sempre lo stesso chiodo. Non si
finisce mai. Per questo la memoria è così importrante, ma so che il
corpo è una forma della memoria, e la voce un'altra. In scena questa
volta ci sono tutte e due: la voce si è imposta da sola, come se la
parola avesse dovuto essere lì, con noi.
- Qual è il messaggio che vuole tramettere con il suo teatro?
Mi interessa il limite invisibile fra ciò che è dentro è ciò che è
fuori. Abbiamo visto lo spettacolo di Jan Fabre, Je suis sang: lui
vuole tirare fuori ciò che il corpo custodisce, il sangue. Io ascolto
quello che passa sulla pelle, la pelle considerata come soglia del
corpo, come membrana che separa l'interno dall'esterno. Essere in due
in questo senso vuol dire scrivere sul corpo, ma anche indagare le
energie che il corpo libera e cercare di dirigere i flussi e le
correnti che si generano.
- Alcuni elementi nei suoi spettacoli tornano con frequenza, come segni: la bombetta, le sedie, il tavolino… Che ruolo hanno?
Gli oggetti sono simbolici. Stabiliscono il rapporto con il mondo
entrando nell'altro dialogo, parallelo, che è quello del corpo. La vita
è una forma - di un'idea, di un'esperienza - e si lega all'energia,
alla musicalità dello spazio di rappresentazione. Gli oggetti rompono
il quadro. Perché interrompono il movimento e costruiscono la visione.
È come se legassero l'istante scenico al momento eterno che
rappresentano; aiutano a creare un doppio tempo, quello dell'azione e
quello della memoria che ogni oggetto contiene.
- Può farci un esempio?
Per esempio i bastoni: sono una forma originaria, per me rappresentano
l'albero del paradiso ma anche la spada di Damocle che pende sul
peccato originale, sono quindi un'immagine potente della separazione
che è in noi. La vita contiene la morte, e il bastone è una doppia
immagine: è fra la grazia e la colpa. Come le mani: c'è un gioco di
ombre cinesi, ma le immagini create dalle mani non hanno ombra. Sono
dita che parlano alle orecchie, polpastrelli in contatto con
cartilagini uditive.
- E la bombetta?
È la mia firma, il mio segno. Questo cappello è magnifico, stabilisce
subito una distanza dal quotidiano, dalla psicologia, perché è
altamente simbolico. Un personaggio con la bombetta è l'immagine
dell'uomo vestito. Togliendolo si è nella soggettività.
- Lei concepisce i suoi spettacoli come delle visioni?
Avevo iniziato a raccontare il mondo con le immagini plastiche, poi con
gli oggetti. Ora racconto con il corpo. Quello che scopro è che in due
si può essere più chiari perché si può uscire dal ruolo. Nel gruppo il
ruolo è fisso, deve seguire con maggior rigore una composizione
spaziale. Le temps du repli contiene anche l'indagine del tempo di
esplorazione dello spazio.
- Le vostre posizioni in scena sono spesso inverosimili. Per quale ragione?
Ci arrampichiamo su un tavolino e scegliamo l'angolo più piccolo per
far esplodere le energie poi, durante la partita a scacchi, lo spazio è
definito dalle nostre posizioni, e cambia dimensione. Tutto dipende
dalla struttura del movimento, che crea un tempo parallelo, non solo
fra i corpi ma fra gli oggetti, lo spazio e i corpi. È tutto da
scoprire, ed è una fortuna.
- I suoi spettacoli sono stati definiti in tanti modi diversi: si è
parlato di danza, di circo, di teatro. Lei come lo definirebbe?
Teatro jel, si chiama nella mia lingua, significa "teatro dei segni".
Ciò che ci scambiamo in scena non ha traccia, come le nostre parole.
L'Unità, 5 agosto 2001 (Le scale di Orfeo), |
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