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Programma Esplor/Azioni 2002   PDF  Stampa  E-mail 


Esplor/Azioni tra Arte e Teatro

20 settembre - 13 ottobre 2002


Compagnia Enzo Moscato 
Co’Stell’Azioni
di e con Enzo Moscato
Museo Hendrik Christian Andersen

Compagnia Katzenmacher
Apparizioni
di e con Alfonso Santagata e la compagnia
Mitreo delle Terme di Caracalla

Fortebraccio Teatro
Coro
di e con Roberto Latini
Sotterranei della Basilica di San Crisogono

Oxytoc Dance di Patrick King e Johan Silverhult
Presenza
di e con Patrick King e Johan Silverhult
Villino Boncompagni Ludovisi



Programma
20 settembre - 13 ottobre 2002


L’artista è dotato di uno sguardo, di una visione: attraverso la sua sensibilità il reale assume nuove luci e nuove ombre. Che abbia disegnato un giardino, scolpito una pietra, raccontato una ossessione, ogni artista conduce verso qualcosa. Illumina con cura e veggenza un aspetto, spesso in anticipo, individuando le emergenze, le faglie, le suture e le lacerazioni della realtà.
Il teatro possiede la magica forza di illuminare mondi diversi nello stesso momento. I suoi strumenti sono la voce, il corpo, la parola, arricchite dalle suggestioni che tutte le altre arti possono contenere.
E poi c’è Roma: Roma è una città salvata dalla sua bellezza, e contiene tesori spesso sconosciuti. esplor/azioni è una occasione per scoprirne alcuni, un modo per rispondere alla chiusura dei teatri. Ma non solo. È anche la risposta a una richiesta degli artisti, che sempre più spesso desiderano uscire dalla convenzione drammatica per aprirsi alla suggestione gererata dai luoghi e dall’assenza di confini fra loro, l’opera e il pubblico.
Enzo Moscato, Alfonso Santagata, Roberto Latini, Patrick King e Johan Silverhult attraverso un racconto, una presenza, un percorso fra bui e luci, un gesto sono le nostre guide alla scoperta del Villino Boncompagni, del Mitreo di Caracalla, del Museo Andersen e della Basilica di San Crisogono. A loro affidiamo una serata, affinché ci mostrino spazi, forme e risonanze che questi luoghi hanno suggerito loro. Per vedere con i loro occhi ciò che prima, forse, guardammo.



Museo H.C. Andersen
CO'STELL'AZIONI
Testo, ideazione scenica e regia, Enzo Moscato
Costumi di Tata Barbalato, musiche di Donamos
con Enzo Moscato
e la partecipazione di Giuseppe Affinito junior

Stucchi, grandi finestre, pavimenti a veneziana, lucernari. È qui che lo scultore Hendrik Christian Andersen dava forma alle sue visioni, e oggi il museo Andersen ospita le sue statue monumentali insieme ad alcuni acquarelli e chine. Soffermandosi nelle due sale – una di gessi candidi, l’altra bruna di bronzi – si scopre che ogni figura, sia essa Venere o il Colosso di Rodi, l’Onda o l’Atleta, ha viso d’uomo. Volti virili coronano forme femminili, e questa ambiguità dei generi crea una attesa, come se da un momento all’altro una parola dovesse svelarne il mistero.

È proprio la singolarità di questo luogo ad aver suggerito la presenza di Enzo Moscato, un artefice di mondi dotato del dono del racconto. La sua lingua si autogenera tessendo una trama sonora nella quale doppi, ombre e fantasmi ritrovano la loro parola e sembrano arrivare in scena in un intimissimo dialogo con lui. Artaud, Copi, Shakespeare ma anche Lautréamont, Villon, Pasternak, Montale, la Cvetaeva, Lorca sono convocati in un amoroso convegno nel quale sembrano avere il compito di consolare dall’assenza. Di senso innanzitutto, ma anche di corpo e di forma.
Attraverso ibridazioni e fusioni, Enzo Moscato rende omaggio alla lingua tentando, come lui stesso ha scritto, di “rendere il corpo tutt’uno con lo scritto, la pelle e la voce di chi recita del tutto indissociabili dalla grafia, dalla traccia in nero dei significanti”.

Negli anni, il teatro di Moscato ha assunto la consistenza di una logosfera attorno alla quale una nebulosa ritmica controlla e determina il movimento delle parole, un movimento che appartiene unicamente alla sua lingua e che connota ogni creazione. In sottrazione, senza amare l’apparire, Enzo Moscato emerge dall’ombra, guarda e racconta presenze che altri non vedono. Co‘Stell’Azioni è un percorso fra i corpi di Andersen, con il quale dar voce a una differenza che Enzo Moscato esplora da anni. Ciò che si è imposto come alterazione della forma e come creazione di uno stile trova, negli inquietanti giganti di Andersen, un’eco capace di rilanciare la sua vitalissima ricerca linguistica.

L’attrazione per una forma sonora di teatro lo ha portato ad allontanarsi dalla prosa e a raggiungere una scrittura intimamente legata al movimento della voce, che è l’origine del suo incessante riscrivere: nella ricerca di una parola esatta, che possa esser detta e ripetuta senza perdere vita, Moscato sottopone la sua pagina a una verifica di verità.
Secondo lui “la ripetitività del teatro è diversa da quella che esiste negli atti morti, che non hanno futuro né progettualità: in teatro si è di fronte ad una ripetizione nella differenza”.
Questa è l’origine del suo viaggio solitario all’interno delle evocazioni e delle risonanze, nel quale la scrittura diventa forma aperta che nasce nella ricerca del piacere. Piacere della scrittura prima, poi piacere dell’ascolto, ma anche piacere del dire. Non è un caso che Enzo Moscato canti: la musica arriva nelle sue parole come soglia che fa vacillare la distanza fra la grafia e la voce, facendosi ponte che permette al segno scritto di non perdere il proprio corpo.

Nei suoi testi appare a volte il latino, a volte il francese, l’ebraico o il greco, e si ha voglia di leggerli ad alta voce, per non perdere quel di piú della scrittura che è appunto il movimento, ovvero il corpo della parola, indissolubilmente legato alle ondulazioni della voce.
Il teatro di Enzo Moscato, seguendo la felice contrapposizione fra teatro e spettacolo di Carmelo Bene, rivela il suo essere un labirinto nei cui corridoi molti artisti si sono perduti.
Al suo interno ci sono infatti tutte le arti e tutte le scienze: la prossemica, la semiotica, la costumistica, il disegno luci, la recitazione, la musica, l’iconografia. Ma anche la filosofia, perché si interroga sulla piú antica domanda dell’essere umano, che cerca una risposta alle sue azioni e alle sue pene.
Nei viali di questo labirinto, solitario e armonico, Enzo Moscato canta i fantasmi dell’anima e degli occhi. E Co‘Stell’Azioni è un invito a vederli insieme a lui.


Basilica di San Crisogono
CORO
di e con Roberto Latini
e con Alessandra Cristiani
Musica di Gianluca Misiti, sound designer Maurizio Palpaceli Art Mama Factory
Fortebraccio Teatro
Prima assoluta

Coro è un percorso acustico, un invito ad avanzare verso l’epoca paleocristiana che la Chiesa di San Crisogono custodisce e protegge. Ogni gradino è un accesso al passato, un percorso indietro nel tempo. Alla fine si arriva al principio, e lí inizia un altro viaggio, affidato questa volta alle voci.
Per ripercorrere la distanza temporale che separa la Basilica paleocristiana dalla Chiesa, Roberto Latini ha scelto alcuni autori come guida verso una nuova dimensione.
Dall’incontro fra una pagina e una iscrizione, fra un brano e una pietra, fra una parola e una piccola cella nascono nuove possibili percezioni del visibile e spazi emotivi dotati di una tonalità singolare.
Questa tonalità è data dalla voce che, quando possiede quella speciale grana che le permette di diventare corpo – e la voce di Roberto Latini la possiede –, supera il limite invisibile che separa la replica dall’idea, diventando veicolo di suggestione o di disvelamento, lontano da quel brusio con il quale la comunicazione stempera ogni affettività. La voce si deposita allora come un velo, risvegliando le parole con il suo movimento, il suo ritmo interno e la sua densità.

Roberto Latini esplora le potenzialità del luogo indagando ciò che questa dimensione suggerisce: “Intervenire è delicato”, dice, “mettere una luce equivale a spengere altre zone e ogni elemento aggiunto diventa una lente di ingrandimento, un’evidenza che cancella qualcosa. San Crisogono è un luogo buio e la sua oscurità suggerisce uno studio sull’acustica, che, da alcuni anni, è il cuore della mia ricerca. Voglio rispettare questo buio che mi ha suggestionato quando sono entrato per la prima volta nella Basilica”.

I suoi spettacoli sono nati dall’incontro con un testo: incontri con parole, non con drammaturgie. Come le Lezioni americane, da cui è nato 1999 strade, una occasione per rivisitare attraverso le categorie suggerite da Calvino brani dei classici del teatro la cui natura rispondeva al tema di ogni lezione. O come La Ballata di un vecchio marinaio di Coleridge del 2000, nato per dare un pubblico alla figura del marinaio, condannata a raccontare la sua storia ogni volta a uno solo, come la poesia prevede. Ma cosí è stato anche per Essere e non, del 2001, uno studio sul doppio dedicato alle figure dei fantasmi in Shakespeare, e anche per Caligola, ultimo appuntamento del progetto Dell’anima e delle forme appena concluso. Caligola si è formato all’interno di una arena circolare di specchi, diventando uno studio sul tema della solitudine del personaggio moltiplicato dalle ingannevoli ribalte di sé generate dai riflessi. “Lí ho visto il mio volto in scena. Quello che nessun attore conosce. Vedersi quando si è oltre, quando non si è qui, è capire che il corpo ne sa di piú, di quella vita altra che il teatro genera. Infatti, dopo uno spettacolo, subito dopo, per me incontrare il pubblico è quasi un dispiacere: il corpo sta ancora traghettando da una dimensione all’altra, torna come può da quell’altra vita e si trova nella realtà. È una cosa che tutti gli attori sanno, nella loro solitudine. L’unico vero nemico del teatro è la realtà, che uccide l’immaginazione creatrice, e minaccia anche la nostra vita di tutti i giorni”.

Coro si prefigura come una “architettura emotiva” da sovrapporre e fondere alla struttura della Basilica attraverso la suggestione dell’eco, le voci dei poeti e il potere evocativo della musica o del corpo. “Ogni testo che si legge a qualcuno deve a noi la sua vita: da quel momento avrà la vita che noi gli abbiamo dato. Bisogna non tradire, essere bravi, perché se ne è responsabili. Si è sempre responsabili di ciò che si ama”.


Mitreo delle Terme di Caracalla
APPARIZIONI
di Alfonso Santagata
Compagnia Katzenmacher
con Alfonso Santagata, Chiara Di Stefano, Johnny Lodi, Massimiliano Poli, Rossana Gay.


Per Alfonso Santaganta apparizione è ciò che il teatro dovrebbe essere, ritrovando cosí la sua imprevedibilità, la sua capacità di trasformazione e di ascolto, la sua visionarietà.

Esistono artisti che adattano i luoghi a loro stessi e artisti sotto il cui sguardo i luoghi cambiano. Alfonso Santagata appartiene a questa seconda famiglia: è forse questo il motivo per il quale, da molti anni, con la compagnia esce dagli spazi convenzionali e lavora sulle spiagge, fra le rovine, nei musei. I luoghi sono per lui richiami che determinano la scrittura: per Apparizioni ne ha visti molti, li ha attraversati in silenzio, li ha ascoltati. Il Mitreo di Caracalla è quello che ha suggerito un percorso. Qui gli Atridi tornano per lui a celebrare Mithra, nel santuario sotterraneo. Si riuniscono in segreto, perché il culto prima di scomparire è sopravvissuto clandestinamente, e ritessono il loro destino a contatto con queste mura, con questo spazio pervaso dall’acqua, dall’iniziazione purificatrice, dal sangue del toro cosmico sacrificale. Con la sua morte, il toro generava l’universo, e del suo sangue non una goccia doveva essere perduta, pena sciagure terribili.

Sacrificando al dio, l’umano e il divino si avvicinano, coesistono generando una tensione che appartiene al luogo di culto. “All’interno del mitreo c’è un muro sfondato, che diventa l’immagine della ferita, ed è un elemento che voglio evidenziare”. Per Santagata, la ferita è il segno della rovina di Clitennestra, di Agamennone, di Egisto. “Qui queste creature eterne possono essere convocate, apparire e poi scomparire. Questo è il teatro: scompare, ma prima una folla di ombre abita lo spettatore, senza lasciare traccia nella sua ragione; si deposita da qualche parte nella memoria sensoriale”.

Apparizioni è quindi concepito come un richiamo, al quale risponderanno gli Atridi, riuniti attorno al virile culto di Mithra - dio responsabile della creazione e della luce, che uccide per generare. Vita e morte sono i due estremi entro i quali tutto accade e il teatro di Alfonso Santagata è legato ai sentimenti primari, che lui definisce sovrani. Quelli che toccano la generazione – il desiderio, l’amore, Eros – e la distruzione – la paura, la violenza, Thanatos. Da Omero a Euripide, la storia è una storia di famiglie e solo nel mito persistono immutati i sentimenti che guidano l’agire umano: la follia, l’amore, la guerra, l’odio.

Le grandi figure tragiche sono gli eroi dell’agone drammatica del sentimento. E il teatro è per Santagata un’arena nella quale far scontrare le forze della natura: qui le sue creature sperimentano il dolore come motore creativo dell’agire, unico slancio capace di scongiurare la tragicità dell’esistenza. L’uomo lotta da sempre contro il destino, comunque avverso a ogni forma di gioia e piacere, e l’insensatezza della vita genera quella paura che diventa poi teatro. Comico, quando la paura è esorcizzata dallo sberleffo, tragico quando è assunta nella sua fatalità. Per questo, per Santagata il testo è presente come ombra, memoria, evocazione: le creature eterne del teatro non muoiono mai, tornano in vita ogni volta che qualcuno le chiama, e mostrano l’individuo – sia esso un eroe della tragedia, un guitto, un personaggio moderno o una figura classica della commedia – che agisce dominato dall’urgenza delle pulsioni. Pulsioni pure, e per questo vicine al tragico: vitali e drammatiche. Improrogabili. In questa economia del sentimento, il dolore è striato di violenza, ma anche di follia, solitudine, vulnerabilità, malessere. Piú si attenua il suo tratto, piú esso diventa fatale. Per questo, Santagata ritiene non ci sia una reale distanza fra il potere di Agamennone o Creonte e quello di coloro che oggi decidono i destini del pianeta: medesime le pulsioni, medesime le cecità.
“Il primo conflitto da cui nascono le immagini è quello fra il teatro e il mondo, che non sono mai pacificati. Vivono nelle loro perdite e nelle loro vittorie di un’eterno scontro. C’è una sola cosa che a noi manca del grande sapere greco: la catarsi”.


Museo delle Arti Figurative, della Moda e del Costume
PRESENZA
di Patrick King
con Patrick King e Johan Silverhult
Oxytoc Dance
Prima assoluta


Il Villino Boncompagni è un gioiello liberty nel cuore di Roma. Circondato da edifici moderni, ha riaperto le sue cancellate in ferro battuto, le sue grandi finestre aggettanti con persiane a binario verticale, le sue porte di legno massiccio e il suo giardino per diventare il Museo Boncompagni Ludovisi per le Arti Decorative, Costume e Moda del XIX e XX secolo, e ospita Presenza, un evento pensato per le sue sale ricche di memorie e di eleganti apparenze che, il 27 e il 29 settembre, saranno abitate da Patrick King e Johan Silverhult.

Questi due danzatori, che da alcuni anni hanno scelto Roma per vivere, sono l’immagine del doppio: due corpi scultorei, uno bianco e lunare l’altro nero e notturno, esaltano la loro differenza in un percorso fra le pareti in trompe l’œil raffiguranti viali e boschi e le porte con segreti passaggi in rilucente ottone che aprono inattese prospettive nella speciale visita da loro pensata per questa dimora.

Presenza, nelle intenzioni di Patrick King che firma la coreografia di questo evento nato per il Museo, vuol essere una suggestione, un modo di entrare in contatto con l’altra parte del sé.
Cosí come forme diverse coesistono nella stessa città, allo stesso modo anime diverse coesistono nel medesimo corpo. Si tratta di prestare loro attenzione e di aprirsi a ciò che non si rivela immediatamente, a ciò che traspare da sotto il velo. Per questo Patrick King ha convocato il velo e il drappeggio nello spettacolo, per mostrare, coprendolo, ciò che affiora alla coscienza solo attraverso un lento percorso di sottrazioni.

In quest’epoca trionfa la cura e l’esibizione del corpo, eppure mai il corpo è stato cosí offeso, costretto e inibito. Ogni sua espressione sembra essere divenuta un cedimento, una mancanza di controllo, una disattenzione. Nel desiderio di restituire sovranità al corpo, Presenza è un invito ad esplorare ciò che di volta in volta affiora e, fra manichini, stoffe ed abiti della prima metà del ‘900, anche Patrick King e Johan Silverhult diventano apparenze, figure di un’epoca lontana che la moda può far rivivere e i corpi possono rianimare. Un gesto sospeso, il frammento di un movimento, una luce che racconti il suo oggetto, un riverbero della memoria, un'immagine duplicata, la sorpresa dello specchio, l’insorgenza del desiderio. Davanti al dettaglio, reale o riflesso, nasce sempre la domanda se ciò che si vede sia illusione o realtà, se qualcosa possa contenerlo attribuendogli senso. Quando il dettaglio è di pelle, la domanda è se accogliere questo derma che tutto può scompaginare mettendo in crisi l’universo simbolico e dunque l’ordine e la quiete.

Attraverso la danza, e la sua interazione con lo spazio, Presenza interroga quindi quel luogo remoto nel quale si sono formate e perdute le strutture originali, quelle che animano l’immaginario e alimentano la creazione delle forme. Quelle che determinano la tonalità della presenza di ciascuno.
Troppo tempo è trascorso dalle feste in onore degli dei, e il vino reclama di esser celebrato facendo onore ad Apollo e restituendo a Dioniso il potere di sovvertire l’anima e le forme.

Per la prima volta nella storia l’immagine è al servizio della comunicazione che tutto svilisce, e Presenza chiama in soccorso il silenzio e la bellezza, ma anche i fantasmi, quelli che univano il corpo alla mente in una festa pagana che celebrava l’energia vitale per scongiurare la morte attraverso l’ebbrezza dei sensi.

Gioia Costa

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