Forum delle creatività INTERVENTO: GIOIA COSTA - GIORGIO BARBERIO CORSETTI
Gioia Costa: Il doppio profilo di Giorgio Barberio Corsetti –
riconosciuto autore di teatro che ha rinnovato la scena italiana ma al
tempo stesso direttore della sezione teatro della Biennale di Venezia –
è prezioso per avvicinarsi in maniera complessa a ciò che può voler
dire nel teatro non solamente far uso delle nuove tecnologie, ma anche
accogliere nel proprio lavoro i diversi linguaggi della scena.
La domanda che ci riunisce questo pomeriggio è come le nuove tecnologie
abbiano influenzato il modo di fare arte oggi. Mi sembra allora
importante iniziare il nostro incontro distinguendo due maniere di
esplorare il nuovo. E' una distinzione cardine che decide i modi di
fare teatro e che spesso viene cancellata: quella fra la ricerca e la
sperimentazione. La sperimentazione è qualcosa che indaga quello che è
nella superficie, indaga cioè i linguaggi che si alternano fra ciò che
è noto e ciò che non è ancora noto, fra il precario e quello che di
nuovo preme e che vuole uscir fuori. La ricerca, invece, ha un
obiettivo molto preciso, ricerca intorno a qualcosa. A partire da
questa considerazione si può dire che tutti gli elementi che compongono
lo spazio teatrale, gli elementi che concorrono alla composizione di
uno spettacolo, sono e si possono leggere come segni, segni di un fare
teatro il cui linguaggio è composto appunto da elementi diversi, non
soltanto dalla lingua, dalla parola, ma dalle luci, dai corpi, dai
suoni e da ciò che tende a costruire il fatto teatrale. Le nuove
tecnologie nelle loro diverse forme fanno parte di questo linguaggio,
sono elementi di quella scrittura rappresentata dallo spettacolo. Se
questo è vero, capiamo che non è più così centrale chiedersi se sia
"contemporaneo" usare le nuove tecnologie. Ci diceva in maniera
preveggente Paolo Rosa quanto i pericoli delle nuove tecnologie ci
circondino come un'aura della quale non ci rendiamo conto. Ma sono il
nuovo che preme di cui parlavamo prima, e per molto ancora sarà così.
Nel teatro italiano Giorgio Barberio Corsetti è stato uno dei primi ad
utilizzare le nuove tecnologie. Questo è avvenuto perché la sua linea
di ricerca è molto marcata fin dagli inizi, dalla metà degli anni
Settanta quando la sua compagnia si chiamava "La Gaia Scienza". Penso a
Cuori strappati,
che risale al 1983, ed era una costruzione di immagini molto forte,
ricca di suggestioni nell'uso del rapporto fra corpi e spazio,
suggestioni che mettevano in dubbio le leggi naturali come la forza di
gravità e le consuetudini del racconto. Questo ha portato Giorgio
Barberio Corsetti, già nel 1987, a realizzare con Studio Azzurro e con
Paolo Rosa La camera astratta e Prologo a diario segreto contraffatto.
L'interazione fra il video che esplorava il corpo e il corpo che si
faceva video, si faceva schermo, rappresentava una novità che apriva
ricche possibilità di analisi e di riflessione. Negli spettacoli
successivi la ricerca ha mantenuto la sua tensione, anche cambiando di
segno. Prendiamo l'ultimo, Il Graal, presentato lo scorso anno.
E' stato tappa di una ricerca che poi continuerà altrove. Questo
spettacolo ha preso uno dei miti fondatori della nostra cultura per
raccontarlo in un altro modo e lo ha fatto anche usando macchinerie
teatrali apparentemente povere, che sono ancora una volta suggestioni
visive potenti, come la grande pozza d'acqua nella quale si riflette
tutto. Gli elementi, i segni, sono dei passaggi di studio e di ricerca.
Devo dire che Barberio Corsetti ha sempre declinato in modo molto
personale la visione, il racconto per immagini: anche nei casi più
squisitamente visivi è frequente il rapporto con le origini letterarie,
nonostante lo spettacolo le racconti in maniera nuova. Pensiamo a Descrizione di una battaglia
da Franz Kafka: la scena era un enorme muro bianco che gli attori
attraversavano bucandolo e uscendone fuori, e da Kafka nasceva la
possibilità di un uso molto diverso dello spazio scenico.
Vorrei iniziare col chiedere a Giorgio Barberio Corsetti se è d'accordo
con la possibilità di iscrivere il tecnologico fra i linguaggi della
scena, considerandolo quindi il segno di un linguaggio.
Giorgio Barberio Corsetti: Da quando, nel 1986, ho lavorato con Studio
Azzurro, sono cambiate molte cose. Come quando in teatro, per
illuminare, si usavano candele immerse in una boccia d'acqua, e la
luminosità aumentava come attraverso una lente, e poi sono arrivati i
proiettori che ci illuminano adesso.
C'è stato un passaggio, un cambiamento importante. Vedendo molti
spettacoli mi sono accorto che, a parte i miei, sono tanti quelli nei
quali entra in maniera decisiva, come elemento del linguaggio scenico,
l'utilizzazione dei media. C'è stata una grande trasformazione, un
grande cambiamento. Nel mio lavoro il punto di passaggio è stato
quando, con Paolo Rosa, ci trovavamo di fronte al palcoscenico e a
questi elettrodomestici davvero ingombranti e per altro, all'epoca,
parlo dell'86-'87, ancora molto fragili. Avevamo difficoltà nel farli
muovere e dovevamo articolarli in una durata che è quella di uno
spettacolo teatrale. L'installazione video, la video ambientazione, ha
un tempo potenzialmente infinito; vive là, si anima, prende vita come
un quadro, si riflette nella coscienza dello spettatore che passa e
decide il tempo della sua fruizione. Uno spettacolo è tutta un'altra
cosa: ha una sua durata, una sua organizzazione; pone dei problemi
diversi di composizione, determina quindi come gli elementi si
incrocino tra loro e altro ancora.
In quelle prime esperienze di fatto il lavoro era metalinguistico, era una riflessione sul mezzo: La camera astratta
rappresentava un modo di attraversare questo luogo astratto e mentale
che è lo spazio virtuale, e poneva una serie di interrogativi che forse
oggi non è il caso di sollevare. Di fatto poi c'è stata una
integrazione, anche grazie al lavoro svolto con Studio Azzurro.
Infatti, dopo qualche anno, alcune cose che avevamo messo insieme, ma
anche immagini, io le ho ritrovate altrove.
Voglio dire che funzionavano, tanto è vero che anche altri hanno
pensato bene di utilizzarle. Nello stesso tempo, però, l'uso della
tecnologia o del virtuale non era più centrale. Era una parola che
poteva essere più o meno articolata in funzione del linguaggio della
scrittura scenica. Eppure alla fine, nel teatro, questo luogo strano,
questa zona in alto o in basso rispetto a voi, comunque un punto verso
il quale si guarda, che attira lo sguardo in un tempo definito, alla
fine, dicevo, il vero territorio nel quale si incrociano i linguaggi,
il luogo che è trafitto da tutti i linguaggi possibili, è e resta il
corpo. Il teatro è il luogo del corpo, non c'è niente da fare, anche se
il luogo è assente, non appare mai. Comunque il teatro denuncia una
presenza, è il luogo della presenza.
A partire da questo emergono una serie di pensieri: la necessità, a
teatro ad esempio, di ritrovare il silenzio. E' il luogo del corpo, è
il luogo della presenza, è il luogo del silenzio; tutto ciò che viene
fatto, che viene detto, avviene a partire dal silenzio. Non è un pieno,
è un vuoto. Il teatro fa il vuoto, leva, toglie, non mette niente. E'
il luogo delle ombre. Non sto facendo un discorso mistico o metafisico,
voglio dire che la nostra mente, il nostro corpo, sono attraversati
continuamente da luci, ombre, immagini, frammenti. Noi siamo composti
anche da questo.
Il gesto teatrale restituisce tutti i frammenti, ma lo fa dopo che
questi ci hanno attraversato. Io credo che il gesto artistico non abbia
una sua oggettività; certo, si lavora su elementi oggettivi, ma tutto è
frutto di una operazione di filtro, di decantazione. Vorrei fare un
esempio molto convenzionale: quando si ascolta Cechov recitato bene in
teatro si dice: "Ma… è come la vita!", invece è come un quartetto di
Mozart, è ipercomposto, ma sembra che tutto succede così, là. E'un
raffinatissimo decantamento della vita così com'è. E' altro, è arte.
Forse non ho detto quello che dovevo dire, parto per la tangente,
perdonatemi. Anche la parola creatività, non so perché, ma per me
contiene un frastuono, un rumore. Bisogna togliere. C'è pieno ovunque,
viviamo in un troppo pieno.
GC: L'esigenza di fare il vuoto, del fatto che si entri in scena per
far scomparire qualcosa. E' una necessità che torna ogni volta che un
corpo d'artista parla. E' sorprendente: quando la parola viene a voi,
agli artisti, dalle esperienze più lontane torna sempre questa
necessità, in tutti uguale. Tornando al tema ti chiederò, dal tuo
osservatorio privilegiato non solo di artista ma di direttore della
Biennale, in che modo secondo te queste nuove tecnologie entrano a far
parte del processo creativo.
GBC: Facciamo un esempio: parliamo delle luci, dell'uso del computer
per fare le luci. E' stato un cambiamento incredibile. Tutto è
diventato più facile, più realizzabile, è diventato possibile mettere
insieme uno spettacolo in modo nuovo, semplificando ogni passaggio.
Assistiamo alla nascita di un orizzonte tecnologico straordinario.
Anche in quello che è il rapporto tra l'immagine e il suono, quello che
viene chiamato la sintesi granulare, o tra il suono e la luce, si
affacciano nuove possibilità, e man mano che si aprono, si scoprono
delle frontiere, e si scopre anche che queste frontiere hanno a che
fare con il funzionamento del nostro cervello, sempre. Andando in giro,
guardando spettacoli nati da esperienze, lingue e paesi diversi, mi
accorgo che i confini tra le arti sono molto labili: soprattutto quando
ci si muove nelle zone della tecnologia non si sa più di che cosa si
stia parlando. Molte cose sono anche legate all'aspetto musicale:
esistono eventi di musica e di immagini con una loro durata, che è la
durata del pezzo musicale, per esempio.
Voglio dire che c'è un movimento enorme, che si percepiscono
possibilità diverse. Serve però sempre quell'elemento soggettivo che si
appropria di questo, lo distrugge e lo ricrea con un gesto artistico.
GC: La domanda che ci poniamo oggi è in che modo le nuove tecnologie
abbiano modificato il fare artistico contemporaneo. Ripensando a quello
che già vent'anni fa faceva Carmelo Bene con la fonica ti chiedo se
credi che oggi il tecnologico, come gli altri segni, si inscriva
all'interno di un linguaggio, la scrittura di scena, come elemento che
punteggia la composizione del fare artistico. Sicuramente adesso
abbiamo elementi in più, come stavi dicendo, elementi nuovi, però
questo genere di ricerca è sicuramente antica.
GBC: Sicuramente, ma cambiano anche i modi di sperimentare. Negli anni
Settanta era un lavoro di trincea che non aveva niente a che fare con
il rapporto col pubblico. Poi, negli anni Ottanta, ci si è incominciati
a preocupare di trovare anche un pubblico per quello che si faceva.
Oggi le cose sono ancora diverse e continuano a cambiare.
Fortunatamente il teatro non è necessariamente legato ad un luogo
convenzionale: oggi siamo qui, all'Acquario Romano, e questo è uno dei
luoghi in cui ho fatto delle cose, in questo spazio ma anche nel
quartiere. In realtà tutto dipende da chi prende in mano la cosa e si
costituisce le sue regole, i suoi rapporti con i linguaggi che
attraversa, che siano spazi, luoghi o corpi. Quando ho un'idea, per
esempio sull'uso della video proiezione all'interno di uno spettacolo,
poi può succedermi di vedere qualcosa che non ha alcun legame con
quello che faccio io, dove c'è un uso diverso della video proiezione,
ad esempio, e questo mi sorprende perché, partendo da un nuovo punto di
vista, altri possono essere arrivati a fare cose totalmente diverse che
funzionano, e che sono belle. Quindi la tecnologia ha senso solo se
iscritta dentro un pensiero, un pensiero sul teatro o sull'arte. Non
esiste di per sé, è un sogno, come diceva prima Paolo Rosa, è qualcosa
che viene dal profondo, e che parla a te. Indubbiamente si deve avere
una conoscenza per utilizzarla, anche se oramai la grande
sofisticatezza dei mezzi, diciamolo, è alla portata di chiunque. Una
telecamera digitale o un video proiettore, solo pochi anni fa costavano
una fortuna. E una telecamera comprata oggi fra tre mesi costerà la
metà.
Tutto si muove, c'è una corsa e questo è anche entusiasmante. Adesso si
lavora col disco e non con le cassette. Sembra una banalità, ma pensate
al lavoro che avete appena visto fatto da Studio Azzurro: anni fa si
sarebbe fatto su cassetta. Io ricordo, ad esempio, che quando loro
facevano Il nuotatore dovevano sincronizzare trentasei
videoregistratori premendo il pulsante tutti insieme. Oggi è un altro
mondo, un altro modo di lavorare.
GC: Sottolinei la rapidità di questo cambiamento. Verso cosa si sta andando e quale sarà il cambiamento compositivo?
GBC: Francamente non lo so. Posso parlare di cosa cambia in me, di cosa
cambi fuori mi è difficile parlare. Ovviamente, lo avrete capito, ho
due punti di vista diversi: quello di chi che fa le proprie cose e
l'altro, quello di chi le fa fare ad altri, entro limiti determinati da
un budget non proprio grandioso. Quando guardo il lavoro degli altri
conservo sempre una grande possibilità di meraviglia, di stupore, di
sorpresa sul loro lavoro. Devo dire che incontro esperienze
ricchissime, nelle quali per esempio il corpo non è presente là, è
presente nell'immagine. Eppure, nella durata e nel modo di mettere
insieme il suono e l'immagine, improvvisamente qualcosa si apre, e ne
nasce una riflessione sul corpo fortissima. Ci sono ancora molte
sorprese..
GC: Costantino D'Orazio ci sta facendo un cenno..
Costantino D'Orazio: Abbiamo soltanto cinque minuti. Qualcuno vuole fare una domanda?
Ludovico Pratesi: Una domanda per Giorgio Barberio Corsetti: secondo
me, probabilmente per ragioni di tempo, è stato poco esplorato il
rapporto tra le diverse arti. Tutti lo hanno evocato, ma nella realtà
queste esperienze sono meno frequenti di quanto immaginiamo. Ancora
oggi nel mondo del teatro, dell'arte visiva, del cinema, della musica,
se ne parla poco e se ne conosce poco. Anche se le nuove tecnologie
permettono di sapere, teoricamente, tutto su tutti. Negli anni Sessanta
e Settanta le collaborazioni erano più frequenti. Tu hai lavorato con
Studio Azzurro, ma pensi ancora di lavorare con altri artisti, con
artisti non necessariamente legati al mondo tecnologico? La stessa
domanda la si potrebbe porre ad Ozpetek per quanto riguarda i suoi
film, a Max Gazzè per i suoi video. Mi sembra ci sia poca interazione
reale tra i vari mondi dell'arte. E' corretto? Volevo sapere se avevi
intenzione o voglia di aprire la tua collaborazione anche ad altri.
GBC: Sì, sempre e comunque. Tra l'altro, "La Gaia Scienza" è nata così.
All'epoca c'erano Dessì, Bianchi, Ceccobelli, verso la metà degli anni
Settanta, dopo di che ci sono stati contatti, incontri, sia in Italia
che all'estero, con artisti di provenienze molto diverse, spesso
musicisti, ma anche artisti visivi.
Quest'anno, e ora cambio giacca, la giro e mi metto quella di direttore
della Biennale, quest'anno facciamo più cose con Zeman, su Shakespeare
and Shakespeare c'è stata una collaborazione, altre cose le facciamo
insieme. Con il cinema e con le altre arti cerco di viaggiare sempre su
queste zone di confine.
CDO: C'è un'altra domanda.
X: Io ho visto Il Graal
a Roma e volevo farle i complimenti perché mi ha colpito molto: sentivo
i miei cinque sensi appagati completamente. Mi sembrava di entrare
davvero in una fabbrica in cui si producesse qualche cosa, ma che non
avesse nessuna attinenza con quello che poi c'era fuori dalla fabbrica.
Nel teatro si incontra raramente un linguaggio che rispetti la mia
interpretazione, il mio punto di vista o anche la mia intimità. Il
teatro come luogo in cui apprezzare fino in fondo quello che si vede,
che si sente, che si prova. Avviene raramente negli altri tipi di arte,
mi riferisco per esempio alla televisione o al mondo delle immagini.
La nostra vita è piena di immagini che ci vengono imposte, luoghi
comuni da cui si è attorniati. Vedere un posto, une fabbrica, nella
quale rivalutare la propria sensibilità credo sia importante e spero
che sia la strada che il teatro come l'arte possa prendere.
GBC: Non mi sembra fosse una domanda, ma ti ringrazio. Posso dire che il fatto che Il Graal
Forum delle creatività, organizzato dall’Associazione Culturale Futuro 2000, a cura di Costantino D’Orazio Roma, Acquario Romano, 7 aprile 2001
avesse luogo fuori dalla città, che si facesse fatica per arrivarci, e
che poi, arrivati lì, si dovesse comunque seguire un percorso, tutto
questo stabilisce un altro rapporto con quello che si vede. Uscire dai
luoghi deputati a volte fa molto bene all'arte. Lo sa perfettamente il
nostro ospite che organizza cose straordinarie di arte in giro per la
città. Questo era uno degli elementi. E devo dire che nel mio lavoro ho
una percezione del teatro che è fatta anche di materia, di materiali,
di immagini: ogni passaggio per me è come costruire un quadro, un
insieme che non è unicamente dato dal lavoro degli attori ma da tutto
quello che c'è sulla scena. Per cui la scenografia è racconto, la
chiamo scenografia perché non saprei come altro chiamarla, ma in realtà
si tratta di altro, e fa parte del racconto come tutto il resto. Quello
che c'è in scena è fondamentale. Se con quello che si mette sulla scena
insieme agli attori si deve solo descrivere ciò che viene detto dalle
parole forse è meglio non metterci niente, è meglio togliere tutto. Se
si mette qualcosa, oggetti, materie, ad esempio il legno piuttosto che
il ferro, significa che si sta raccontando qualcos'altro. E c'è una
grande opportunità in questo qualcos'altro, che si può raccontare
attraverso la scenografia, ovvero attraversoquello che compone insieme
agli attori l'immagine. Anche la parola immagine è un po' consumata:
immagine significa rendere evidente non una cosa che c'è ma una cosa
che non c'è. Icona forse sarebbe il termine giusto. E' dare un'evidenza
a un pensiero. L'icona è il pensiero visibile, per questo quando si
popola la scena, quando la si riempie di cose, si ha una responsabilità
enorme, perché ciò che ne verrà fuori potrebbe essere veramente osceno
se non lo si fa bene. La tendenza all'oscenità dilaga, perché
l'oscenità in genere è determinata dalla inconsapevolezza, cioè dal
fatto che le scelte vengono fatte così, senza pensiero.
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