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Lampi d’orale
Valère Novarina tende ad annullare qualsiasi senso apparente della
lingua per rendere alla parola la sua capacità di evocazione, che
diviene una possibile rigenerazione del senso. Altera le terminali ma
non tocca mai la radice delle parole, innesta echi di lingue desuete,
mescola generi, cambia prefissi e suffissi. Dà vita ad una pagina di
suoni. E così ogni termine, nell’onda sonora che genera nella pagina e
che viene accentuata dalla propria originarietà, assume pieno valore
nel riverbero di senso e di suono che crea attorno a sé quando incontra
altri termini.
Nell’Atelier volante
la proliferazione verbale e la follia linguistica di alcuni dei nove
personaggi non hanno solo la funzione di una rottura con schemi e
logiche accreditate nella prassi teatrale: costituiscono in realtà un
secondo livello di ascolto e di lettura, offrono una lingua che si dà
nella sua nudità, nel suo essere puro suono, una lingua che non vuole
sottostare alle regole della sintassi. E questa libertà genera nuove
parole, accordi, nuovi e inattesi incontri fra suono e senso.
D’altronde bisogna pur saper custodire un po’ di senso, per poter poi perderlo.
La storia di Boucot, imprenditore onnivoro che strangola la sua impresa
nel desiderio incontrollabile di aumentare all’infinito la produzione e
quindi il rendimento, accompagnato da Madame Bouche, figura
ossessionata dal denaro, che trasforma ogni prodotto degli impiegati in
merce da rivendere loro in qualsiasi momento di svago, e dal Dottore,
allegoria di colui che esercita il controllo ma anche spalla fedele dei
multiformi appetiti dei padroni, sono un pretesto per mettere in scena
il meccanismo impazzito del mondo contemporaneo.
Boucot manipola la sintassi e, con questa, governa. Mentre Madame
Bouche, regina del mercato, regna. Infatti lei non è ossessionata dal
Senso e cambia continuamente registro: moglie devota, poi creatura
maliziosa, poi donna capo, Madame Bouche adotta l’atteggiamento che più
conviene alle diverse circostanze, affermando sovranamente la sua
indifferenza al Simbolico di cui, invece, Boucot non può fare a meno.
I tre sono padroni della lingua e manipolano gli impiegati confondendo
loro le idee con formule e spiegazioni prive di senso, ma tanto
complesse da sembrare inoppugnabili. Mentre i sei impiegati alfabetici,
ebbri di limitazioni, covano imprecisi istinti ribelli perdendosi poi
nei luoghi comuni prefabbricati per confonderli. La bellezza di un
paesaggio da cartolina, il sogno di un amore impossibile, la speranza
di un’intera giornata libera fra trenta anni. Perduta la capacità di
articolare in un universo di frasi fatte, gli impiegati perdono in
realtà la volontà che, sola, potrebbe permettere loro di fare il salto
e, per una volta, di scegliere.
Durante il primo allestimento dell’Atelier volante
diretto da Jean-Pierre Sarrazac, nel 1974, in disaccordo con il regista
Novarina ha scritto in una notte La lettera agli attori. Questo testo è
un documento dedicato allo status odierno del teatro e alla supremazia
accordata alla regia nei confronti del copione e di chi recita. Compito
del regista è cancellare ogni singolarità, ‘mettere in bella’ corpi e
voci, attenuare le differenze uniformando lo spettacolo allo stile
dell’unico corpo che non si espone, che non varca le quinte, quello del
regista, appunto. Ecco che si ripropone il conflitto fra padroni e
impiegati, ovvero il conflitto fra personaggi, che nella lettera viene
esteso al conflitto fra il regista e gli interpreti, trasformandosi in
competizione per il possesso del corpo dell’attore e della lingua.
“Fare parole di teatro vuol dire preparare la pista dove la cosa
ballerà, mettere ostacoli, siepi sulla pista di cenere, ben sapendo che
solo i ballerini, i saltatori, gli attori, sono belli...”, scrive
Novarina, e ricorda loro che “l’attore non esegue ma si esegue, non
interpreta ma si penetra, non ragiona ma fa risuonare il suo corpo. Non
costruisce il suo personaggio ma decompone il corpo civile e in ordine,
si suicida. Non composizione del personaggio, ma scomposizione della
persona, scomposizione dell’uomo: ecco cosa si fa in scena”.
Siamo di fronte a un teatro che si presenta come eccesso teatrale nella
scrittura, nel quale la parola assume su di sé la tragedia
dell’esistenza e della sua crudeltà, nel senso indicato da Antonin
Artaud: ogni essere, per nascere e venire al mondo, deve sopprimerne un
altro, deve cercare di soddisfare il suo appetito vitale mangiando la
vita di un altro.
Non è un caso che la ricorrenza del verbo mangiare sia presente in
tutti i testi di Novarina. Mangiare è l’atto estremo dell’affermazione
della volontà di vita e in questa accezione rivela la propria
derivazione da Artaud: divorare la vita mentre si è divorati da essa.
Il “dramma della vita” consiste nell’alternanza di pieno e vuoto e
nella tragedia della divisione degli esseri. I personaggi, che
diverranno nei testi successivi nomi parlanti, apparizioni orali di
figure dette, sono lo specchio dell’impossibile singolarità
dell’individuo. Infatti la condanna della modernità risiede proprio
nell’accordo indiscriminato, nell’aderenza a regole e stili messi a
punto per annullare ogni possibile devianza. Ed è proprio la conformità
ad aver generato l’aberrazione, conformità che Antonin Artaud ha
denunciato nel desiderio di ammalare e sanare attraverso la prova del
dolore estremo, e che Novarina ha messo in evidenza tramite
l’attribuzione di un senso altro, la possibile lettura sonoramente e
sovranamente estranea a regole e codici.
Ma L’atelier volante è anche l’incarnazione di un’immagine che
accompagna Novarina fin dalle origini: quello dell’attore-tubo, corpo
forato alle due estremità percorso nel suo interno dalla parola. Una
parola che genera la vita attribuendo nomi, che feconda con l’atto
stesso di emettere suoni. E l’attore, corpo cavo per eccellenza, è
colui che, accogliendo nel proprio corpo ciò che l’autore ha tracciato
per lui sulla carta, trasforma in materia e in soffio orale la
scrittura che aera le sue cavità.
Come ha messo in luce Maurizio Grande, della cui passione ed acutezza
molti di noi sentono la mancanza, “Novarina condensa e riespone la sua
idea di teatro nella diluizione dei nomi parlanti, nell’orgia di una
carne famelica che il teatro pretende di dire e di salvare dicendo,
proferendo. Per questo, nei suoi testi, le orecchie sono così spesso
citate, evocate, chiamate alla scena. Le orecchie, ovvero le parti del
corpo più aperte all’esterno, volti inguardabili dell’ascolto, che
Novarina invoca perché attraverso le orecchie si formi quell’unico
teatro possibile della parola: un soffio che si trasforma in voce e che
si ri-trasforma in suono nel suo presentarsi alle buche esterne del
capo, della testa, questo tappo poggiato sul totem dell’uomo-trou, del
nome poggiato su un “buco” attraverso il quale passa il dolore della
vita”.
E questo dolore, che permea la scrittura di Novarina eretta contro ogni
forma di comunicazione, passa dalla pagina alla scena attraverso
l’ecolalia e la filastrocca riaffermando, al di là del senso, la
sovranità del suono sorgivo.
Prefazione all'edizione italiana di l'Atelier Volant di Valère Novarina, L’atelier volante, Costa &Nolan, Milano 1998. Con il contributo del Centre National du Livre.
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