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Il teatro di Daniel Danis   PDF  Stampa  E-mail 
La favola di questo mondo

Con Daniel Danis appaiono in scena archetipi dell’infanzia e dell’innocenza irraggiungibile che raccontano con semplicità solo apparente tutto il dolore di vivere, e la dolcezza che si cela nel dolore.
È questo il filo attraverso il quale leggere l’esistenza dei suoi personaggi, quasi sempre bambini, che devono subire continue prove per liberarsi dall’universo punitivo rappresentato da ciò che sfugge al loro controllo: l’Ordine e la Legge. La salvezza è possibile a condizione che vengano riconosciuti i valori che, soli, sono in grado di aprire l’angusta sfera d’azione concessa ai minuscoli eroi della modernità. Non è un caso che l’amicizia occupi un ruolo centrale: può essere fonte di vita o di morte, ma si presenta sempre come slancio profondo di ogni azione, centro attorno al quale costruire la trama della propria vita.
Infatti le esistenze di tutti i personaggi di Danis, benché divise fra violenza, paura e fantasia, sono tenute insieme da una forma moderna di fede: la fede nel sogno intimo di ciascuno, realizzabile solo attraverso un volere incondizionato e fermo. Impossibile costringere le sue creature nei confini del bisogno e del dovere perché vivono tutte una vita altra, segreta e ricca di visioni, una vita dominata da un’idea che contiene la forza del progetto rigenerante. Il nuovo inizio, la rinascita, assume cosí un potere catartico e motiva il corso dell’esistenza dei personaggi.
Daniel Danis affida a una scrittura che non teme il lirismo le scansioni della sua pagina. Il movimento è dettato dal ritmo interno delle parole piú che da virgole o punti. Spesso ripete una frase, una formula, un’immagine. E questa ripetizione dà alla sua scrittura una connotazione emotiva.
Ciò nonostante, il teatro per Danis ha luogo innanzitutto nella parola e il racconto diviene visione di quanto si narra: le sue storie si nutrono di elementi semplici che hanno però una forte valenza mitica, ed è per il loro tramite che ricostruisce la complessità dell’essere e del suo volere.
Ecco perché il racconto assume in scena un valore visionario potente: le lacrime che sanno di limone, l’oggetto di rame nel quale soffiare parole, il corpo-lucciola che si illumina la notte, la pietra fra le costole che rende il cuore dolente, i corpi che lacrimano di fronte alla sofferenza sono immagini che avvicinano tutte il linguaggio alla pelle e la metafora al corpo, mostrando il lento movimento con il quale il teatro cambia sintassi senza dimenticare la sua natura prima: arte del racconto, della suggestione e del magico.
Nel giugno 1999, in occasione di un soggiorno organizzato dal Centro Internazionale di Scrittura Drammaturgica La Loggia e dall’Ambasciata Canadese al fine di rivedere le traduzioni, Daniel Danis ha scoperto le nuove sembianze che le sue immagini assumevano viaggiando da una lingua all’altra. Ospiti della Casa degli Alfieri ad Asti passeggiando fra le rose antiche, cespugli di rosmarino e di lavanda che mai aveva visto in Canada, con Daniel Danis abbiamo discusso a lungo dell’origine e della genesi delle sue immagini. Per ricreare il ritmo della pagina a volte è stato fecondo alterare l’ordine della frase e far affiorare, in italiano, forme dell’imprecazione, della rabbia o dell’intimità che permettessero di sentire, nella traduzione, il movimento originale del francese parlato nel Québec. Altre volte un’immagine assumeva, in italiano, nuove potenzialità da far affiorare. I segreti legami che danno a una parola un riverbero di senso in una pagina possono creare una nuova rete di suggestioni passando in un’altra lingua: diversa è la percezione dello spazio, diversi i gusti dei cibi e i colori delle stagioni. Diverso, in ogni caso, il modo di abitare la lingua. Ma in queste differenze affinità segrete e consonanze impreviste davano vita a piccole e grandi scoperte, a incontri linguistici, epifanie e metafore che hanno arricchito di nuova linfa le opere.
Parte di queste osservazioni ed analisi possono avvicinare il lettore italiano a una scrittura che racchiude in sé elementi violenti e teneri, forme nuove ed antiche, una fantasia libera accompagnata da un senso profondo della sofferenza.

Ad una prima lettura sorprende la ricorrenza della morte nei suoi testi. Minacciata, già avvenuta, incombente. Si manifesta come dono che la lepre fa di sé ai bambini affamati nel Ponte, è allegorica nel Canto del Dire-Dire perché in realtà apre le porte del Castello di luce. È simulata in Cenere: fingersi morti per spezzare tutto. Ma è anche reale, violenta: il sacrificio della mucca in una notte orgiastica. Cosa induce in lei questa continua interrogazione della morte, che è sempre legata all’immagine del sacrificio?
Camus ha scritto che “non vale la pena suicidarsi perché ogni giorno si muore e si rinasce ad altro”. La morte è rinnovamento. In questo senso può essere un dono.
Ogni religione che possieda il senso del sacro - non del religioso, del sacro - ha in sé gli elementi che contengono il cuore della mia sete, della mia ricerca: il legame profondo che unisce la sessualità, la natura e la morte. Tre elementi indissociabili. Tre cuori di vita.
Ho avuto un’educazione cattolica e la mia infanzia è ricca di ricordi legati alla chiesa, ricordi che si sono nutriti di fantasie, di immagini, di parole dette nelle preghiere della sera, subito prima dell’arrivo del sonno. Il dormiveglia ci porta al di là di quello che la fantasia “educata” osa immaginare, e spalanca nuovi orizzonti. Cosí, ho creduto fermamente che fosse possibile trasfigurare il mio corpo in altro: il corpo non poteva essere confinato alla realtà fisica, all’immanenza. La prima grande favola della nostra infanzia è il racconto della vita di Cristo, che mi suggeriva una diversa percezione della realtà. Provi a pensare, ad esempio, alla sua morte. È la prima immagine di morte che si forma nella fantasia di un bambino di religione cattolica, ed è un incontro con la morte simbolico, non certo reale. Questo mi ha permesso di guardarla da lontano, senza rapporti con il dolore della perdita di qualcuno. Perché in realtà il potere della morte è il potere dell’assenza. Da quel momento regna il mai piú, che si tramuta in destino.

Parliamo del Ponte di pietre, che contiene elementi mitici forti. Qui i corpi si tramutano in alberi carichi di frutti, i lupi offrono le loro pelli per dare calore, gli animali “diventano morti” per trasformarsi in cibo. Tutto questo ha una forte valenza religiosa.
Il Ponte è rivolto ai bambini e quindi dovevo semplificare il rapporto dei punti di vista all’interno della storia. Ho cercato un’immagine fondatrice: due esseri ingenui, cui per età è negata qualsiasi forma di astuzia, devono passare attraverso prove che non intaccano la loro morale e il loro cuore. Prove che permettono di vedere chiaramente oltre i valori adulti riscoprendo, in modo forse fiabesco, una terra dove ricominciare una nuova vita e un luogo dove alla fine tutto è possibile.

In questa visione è contenuto un messaggio “messianico”, tanto piú dure le prove tanto piú alta la ricompensa attesa? Il tema del dolore rigenerante è centrale per questo?
Sí, è centrale nella mia scrittura. Nel Canto del Dire-Dire c’è una componente di esperienza vitale reale ed intensa che porta a un’altra comprensione, oltre il linguaggio, oltre la parola. Un sapere. Non conoscenza ma sapere. È un’apertura. I personaggi non muoiono. Si svegliano attraverso il dolore. Nel Ponte di pietre, in Cenere di sassi, ma in fondo anche nel Canto del Dire-Dire, c’è la scoperta di un nuovo luogo e di un nuovo stato. Che si raggiunge attraverso prove, prove che permettono di accedere ad altro. E ogni cambiamento profondo passa attraverso l’esperienza del dolore. Il vero dolore è muto, fermo, vigile. In apparenza. In realtà, dentro, il dolore grida, si sposta e non vede. Ma la sua manifestazione esterna è la pietra. Per questo i cimiteri scelgono la pietra.

Nel Canto del Dire-Dire il centro è la parola: imparare a parlare. I personaggi sembrano obbedire a “necessità fantastiche” che dettano l’ordine della storia. Qual è la genesi dei loro caratteri?
Il canto del Dire-Dire è nato attorno al tema di come un uomo potesse far cantare il proprio animo. I tre fratelli sono legati all’immagine della trinità, sono tre aspetti spezzati dell’Uno. La sorella, Noema, rappresenta invece la pulsione di vita. Rock è la testa. Lui può decidere, far fronte alle difficoltà. È il solo che guidi, che vada all’ospedale, che sia presente quando è davvero necessario. William è la parte energetica sessuale, brutale. È energia arcaica, vuole infatti prendere il potere e scatena la violenza, ma non può dirigere la vita dei fratelli perché non ne ha le capacità. Fred-Gilles è l’ordine. È colui che può ricevere e restituire: può cucire, truccare sua sorella, cucinare. È l’unico che possa riferire quanto accade; per questo è il solo che, raccontando, ha diritto all’uso delle virgolette. Noema, infine, è il corpo addormentato in sé, che bisogna svegliare perché canti. Non ha rapporti con la realtà, quindi non risponde ad alcuno stimolo. Sposa il Tuono, costruisce il Castello di luce, canta come un angelo e, di notte, il suo corpo si illumina come quello di una lucciola.

Se il Dire-Dire è l’oggetto con il quale imparare a parlare, in Cenere di sassi il protagonista è invece chiuso in un silenzio violento: per superare il dolore della morte di sua moglie sceglie di non parlare piú. Questo testo apre una nuova fase nella sua scrittura: è il solo nel quale compaiono figure reali. Cosa la ha indotta ad allontanarsi dalle sue figure mitiche?
Cenere di sassi è il racconto di un’iniziazione. Inizia il mondo alla vita e alla morte. È nato attorno al tema del silenzio. Il silenzio è sempre legato a un dolore. I personaggi vivono un’esperienza vera, possibile, in questo testo, ed è la prima volta che ambiento un racconto in una situazione verosimile. Ma quello che mi interessa non sono i caratteri, né l’evoluzione della storia. È l’incontro violento fra la vita e la morte, che ogni nuova esperienza produce e genera.
La vita è un’avventura globale e pericolosa: ogni sua manifestazione è sensuale e proprio per questo nasconde la morte. La natura, tutta la natura, è pura sessualità, ovvero energia, come l’acqua, la terra, il ghiaccio.
Dietro ai personaggi, dietro al loro volere, c’è il sentimento che comanda. E naturalmente il sentimento dipende dall’energia che li unisce. L’energia è sempre esplosiva, anche nel silenzio.

Pelli magiche, strumenti ovali di rame rilucente, pietre e rocce, medaglie dotate di poteri curativi. Qual è il ruolo degli oggetti nei suoi testi?
Sono loro che dettano la cristallizzazione delle immagini, che danno vita al racconto. Il rame che brilla dal rosso all’oro, e che può curare, le rocce… Le rocce mi hanno sempre affascinato. Ricordo di aver saputo da bambino dell’esistenza di gallerie sotterranee nelle quali lavoravano degli uomini per estrarre rame o zinco. Dove io abitavo la terra di notte tremava perché le mine esplodevano di notte per aprire nuove gallerie. Questa immagine per me era legata ai fondali del mare, alle profondità inesplorate, a quanto si può percorrere solo nell’immaginazione. Ma pensare a uomini che vivevano parte della loro vita sottoterra mi ha colpito profondamente. L’oggetto roccia in sé non mi interessa, non mi piacciono le collezioni, né tantomeno gli amuleti. È la materia che mi folgora, nell’insieme.
È cosí per tutti gli oggetti. Importante è il vetro della bottiglia, non la bottiglia in sé. La sua trasparenza, il fatto che sia fatta di sabbia, eppure sia trasparente. Come si può concepire veramente che il vetro venga dalla sabbia?

Le sua scrittura suggerisce un teatro destinato all’ascolto: si può pensare a una scena nuda nella quale un attore, con le sue parole, faccia apparire tutte le immagini. Vorrei che parlasse dell’origine del suo rapporto con il teatro.
All’inizio non è stato facile: non sapevo riflettere con le immagini, ne ero invaso, ma non sapevo come trasporle in scena. Poi ho scritto Celle-là, il mio primo testo. È nato come un dono, come un regalo di compleanno. Da allora tutto si è disposto semplicemente: le immagini hanno preso forma.
Il teatro è il luogo nel quale gli esseri umani si incontrano per sentirsi parlare. È il luogo profondo della parola. Parole sparse, immagini, storie. Ma dove si capta ciò che avviene in scena? Nel corpo dello spettatore. Esistono corpi che, incontrando parole, permettono di generare sogni che legano segretamente un’intera platea al medesimo percorso intimo. La sola frase che si potrebbe dire a teatro è: “È magnifico, viviamo tutti nello stesso momento”. Lo spettacolo può finire lí, ogni spettacolo. Uno scambio di corpo fra tutti in sala. È meraviglioso. Ecco. Ecco perché scrivo per il teatro.

Prefazione all'edizione italiana di Teatro di Daniel Danis, Oedipus, Salerno 2000


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