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UNA NOTTE ALL'ELBA   PDF  Stampa  E-mail 

 DIALOGO ONIRICO TRA ALBERTO MORAVIA E NAPOLEONE 

SULLA BIBLIOTECA DELL'IMPERATORE

 di Alberto Moravia


(...) Trovai in una pagina l'elenco dei libri della biblioteca di Napoleone, un migliaio; per curiosità presi a scorrerlo, mi venne sonno, chiusi il libro, spensi la luce e subito mi addormentai.

Non so quanto tempo dormissi; venni destato da un forte dolore al collo e da un curioso rumore che veniva dall'anticamera: come di un attizzatoio che frugasse e battesse con forza e quasi con rabbia tra i carboni di un camino. Senza molto riflettere mi levai in piedi, uscii a piedi nudi nel gelato corridoio e andai nell'anticamera. Nel solito scarso lume, al di sopra della poltrona rossa che voltava la spalliera verso la porta, vidi un enorme cappello a lucerna nero. "Un carabiniere..." pensai stupito.

Ma come ebbi fatto il giro della poltrona mi accorsi invece che era proprio lui, il vincitore di Austerlitz, Napoleone in persona. Stava seduto un po’ rilasciatamente, con il mantello disfatto e rovesciato sui braccioli. Teneva in mano un attizzatoio di ferro e, piuttosto che attizzare, batteva e ribatteva meditativo e rabbioso tra la cenere e i neri mozziconi spenti di un piccolo e freddo camino che la prima volta che mi ero affacciato nell'anticamera non avevo notato. In un canto di questo camino stava raggomitolato un grosso gatto soriano, striato, della specie più comune.

Questo gatto, che aveva una faccia piena di intelligenza, pareva sorridere forse a causa della forma della bocca rialzata agli angoli sotto i baffi, e, a ogni colpo dell'imperiale attizzatoio, visibilmente trasaliva. Confesso che il mio primo sentimento, vedendo l'uomo della lucerna, fu di vergogna per la mia veste da camera e i miei capelli scomposti.

Io - Perdonate, Sire...

Napoleone (brusco) - Non importa.

Io (rimettendomi dalla sorpresa e approfittando della situazione) - No, volevo dire, perdonate, Sire, ma i titoli della raccolta dei vostri libri conservati qui all'Elba, mi hanno interessato in particolar modo. Sono indegnamente letterato. Così non ho potuto fare a meno, scorrendo quei titoli, di fare qualche riflessione.

Napoleone - Quali?

Io - Per esempio sapevo che voi, essendo nato nel 1768 e morto nel 1821, avevate vissuto più della metà della vita nel ‘700, e per l'appunto quella metà che conta di più. Ma i vostri libri mi hanno confermato in questa idea, che voi per certi aspetti siete evidentemente un uomo del secolo dei lumi. A Fontainebleau e poi all'Elba, quali sono le vostre letture? A parte un diluvio di trattati di geometria, di matematica, di astronomia, di arte militare, di balistica, di chimica, di botanica, di scienza insomma volgarizzata che rivelano la fede nei lumi che fu propria agli enciclopedisti; a parte qualche romanzo del tipo di Julia della Radcliffe e molti libri di storia, i vostri autori si chiamano Voltaire, Rousseau, Diderot, Beaumarchais, Marmontel, Saint-Evremont, Fénelon, Le Sage. Di codesti autori avete le opere complete. Di modo che non lasciate l'aridità dei trattati di matematica che per ristorarvi con il razionalismo limpido e secco dei volterriani. Del resto non avete forse detto, nel 1803: "Fino a sedici anni mi sarei battuto per Rousseau contro gli amici di Voltaire. Oggi è il contrario"? È vero che avete anche le opere di Sant'Agostino. Ma c'è da giurare che gli abbiate spesso preferito qualche scienziato della vostra Accademia. Giacché per voi, ancora a Sant'Elena, l'anima era un fluido elettrico; di quell'elettricità che avete profetato di essere il gran segreto della natura. Altro esempio: avete l'Orlando Furioso ma non la Divina Commedia. Anche Voltaire non poteva soffrire Dante che tacciava di gotica oscurità; e amava l'Ariosto". 

Napoleone- Se Voltaire fosse vissuto sotto il mio regno, l’avrei incaricato di scrivere la mia vita.

Io- E se la sarebbe cavata bene; almeno a giudicare dal modo con il quale scrisse di un altro turbinoso capitano: di Carlo XII di Svezia. Meglio sempre della maggior parte degli storici francesi dell’Ottocento che hanno tentato in ogni modo di capire quel che ci stavate a fare nella storia di Francia, senza cavare un ragno dal buco. Però se Voltaire, così chiaro ed elegante, fosse stato capacissimo di ricreare il vostro carattere, in compenso gli sarebbero sfuggite molte altre cose.

Napoleone- Quali?

Io- Il lirismo, per esempio, che è nei piani semplicissimi e bellissimi di tutte le vostre battaglie. Quell’intuito fulmineo, aquilino davvero, che vi fece sempre infinitamente superiore ai vostri avversari, ragionatori freddi e schematici, sciocchi strateghi passivamente seguaci della tecnica federiciana. Per Voltaire la campagna d’Italia sarebbe stata nulla di più di una guerra vittoriosa. Per noi moderni essa è la gioventù stessa del secolo che irrompe eroicamente. Nomi come Montenotte, Millessimo, Dego, Lodi, Lonato, Castiglione, Bassano, Arcole, La Favorita, Tagliamento, Rivoli, così italiani e così napoleonici, si adornano per sempre del ricordo degli uomini, della lieta e pura luce di un sole primaverile che spunti in un cielo senza nubi. Ad esaminare attentamente le disposizioni e gli accorgimenti di quelle battaglie, si scopre l’abbondanza impetuosa, l’ardente precisione che sono proprie all’età giovanile. Tutto questo a Voltaire sarebbe forse sfuggito. Ma soprattutto certe altre cose per le quali precorreste tempi ben diversi.

Napoleone- Che tempi?

Io- Questi nostri tempi. Con voi cominciano le masse, mentre prima di voi non c’erano che i tre stati. I vostri proclami, così imperiali e insieme democratici, sono esempi insigni di una eloquenza destinata alle moltitudini. Altresi, dopo molti secoli di eclisse ricomincia con voi l’impero romano. Mentre nella storia di Francia, storia nazionale e feudale, siete in fondo quasi incomprensibile, in quella più generale dell’Europa state al vostro posto. Per primo dopo Carlo Magno ritentate l’unificazione del mondo civile sotto uno stato sopranazionale. Tagliate a gran colpi di sciabola nei cieli azzurri d’Europa confini non già geografici o etnici, ma politici e militari. Mettete dovunque corpi di guardia, gabellotti e burocrati. Dopo i secoli dei privilegi feudali, con voi ricomincia la legge. Ricomincia lo Stato. E siete voi a fissare per un pezzo i rapporti di questo Stato con la Chiesa, con i cittadini, con il commercio, con l’industria, con la arti, con la scienza, con tutte insomma le attività umane. La borghesia aristocratica d’Europa, è vero, vi abbatte, ma la vostra opera resiste.

Napoleone- Sotto il mio scettro i popoli d’Europa avrebbero potuto vivere felici.

Io- Giusto. Ma gli uomini purtroppo non cercano la felicità. Era invece vostro destino di ridestare con le guerre tutte le nazionalità d’Europa, dalle maggiori, fino alle più insignificanti…

Napoleone- (attizza e non dice nulla)

Io- (con ardire) Ed ora, Sire, una preghiera

Napoleone- Quale?

Io- Non so se posso farla…

Napoleone- (in dialetto corso) Fete puru.

Io- Sire, sono convinto che il futuro vi appartiene, come già vi appartenne il passato e come vi appartiene il presente. Ora, Sire, cosa succederà?

Napoleone- (tace e attizza).

Io- Sire, voi non mi rispondete

Napoleone- (attizzando e sempre in corso) – Andete via.

Io- Sire, una parola sola.

Napoleone- No.

Io- Sire

Napoleone- (in tono definitivo, come a mettere un termine al colloquio; e sempre in dialetto corso) Andete via, vi dico…mi dispiace par boi…ma quand’ù corsu dice no, è no!

A questo punto un colpo più forte dell’attizzatoio fece saltare in piedi il gatto che da qualche momento si stava appisolando. Nello stesso tempo una gran nuvola di cenere e di fredda e antica polvere uscì dal camino, tra gli alari anneriti, e gonfiandosi e sviluppandosi in volute grigie e tetre, avvolse prima il camino poi la poltrona rossa e Napoleone, infine me; e sempre diffondendosi grigia e punteggiata di nere particole di carbone riempì tutta la stanza. Vidi ancora un momento l’immobile cappello a lucerna, poi una nuvola più scura e più fitta me lo nascose alla vista. Intanto la polvere e il carbone mi pungevano la gola, mi pareva di soffocare, tossivo sempre più portando la mano alla gola; e mi destai.

Doveva essere l’aurora, nella stanza c’era già luce, la finestra le cui imposte avevo lasciato spalancate, aveva i vetri appannati di acqueo vapore, ma in quella argentea rugiada, simili a colori dissolti d’acquarello, si indovinavano un azzurro di cielo, un verde d’alberi, un rosso di muro, vivi e freschi e intrisi di luce. “Una bella giornata”, pensai felice. E giratomi dall’altra parte mi riassopii ben presto, dormendo senza altri sogni fino al mattino inoltrato.

 

1). Alberto Moravia, Una notte all'Elba, in "Omnibus", Anno III, n. 2 -14 gennaio 1939, pp. 1-2.


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